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L’Italia di Draghi e la Libia. L’incontro con Saini, Varvelli, Mezran

Un equilibrio fragile e minacciato da gruppi militari, un tessuto socio-economico dilaniato e le elezioni all’orizzonte. Il live talk di Formiche con Saini Fasanotti (Brookings/ISPI), Mezran (Atlantic Council) e Varvelli (Ecfr) sul ruolo dell’Italia di Draghi in Libia

La visita del primo ministro Mario Draghi in Libia prelude a quello che si spera essere un periodo di ricostruzione, favorito anche dall’Italia, ma il sentiero per la stabilità è impervio e minato. Tanti gli obiettivi, tante le variabili, tanti gli attori (anche esterni) che rimangono tra le quinte di un teatro segnato da un decennio di conflitto. L’ultimo live talk di Formiche (qui la registrazione) si è appunto incentrato su quale sia la strada migliore da seguire, da parte occidentale, per far sì che Tripoli non ricada nel caos.

Federica Saini Fasanotti, Senior Associate Fellow di ISPI e Brookings Institution, ha parlato di una “pesante discrasia tra quello che accade a livello politico e quello che sta accadendo sul territorio”. Da una parte gli incontri ai massimi livelli, dall’altra il mancato ritiro delle truppe internazionali – più o meno irregolari – e la presenza di milizie locali, non disconosciute e talvolta anche legittimate dall’alto e integrate nelle istituzioni, che “sfaldano” il tessuto sociale e inglobano il futuro dei giovani (metà dei 6 milioni di libici ha meno di 25 anni).

Le parti internazionali insediate permanentemente in Libia sono Russia (celata dietro al Wagner Group, un gruppo di contractors militari spesso assoldati dal Cremlino), Emirati ed Egitto sul lato cirenaico, Turchia e Qatar sul lato tripolitano, che a sua volta è sostenuto (politicamente) dall’Onu, dall’Ue e dagli Usa. “Finché [le forze straniere] sono ferme e inattive possono anche essere un elemento stabilizzante” ha commentato l’esperta, “ma possono esplodere, con effetti dirompenti nell’ambito politico e disgreganti nella realtà sociale”.

Per Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma di European Council on Foreign Relations (Ecfr), l’eventuale decisione di far uscire le potenze esterne dal territorio libico verrebbe presa ad Ankara, Mosca, Bruxelles o anche Washington, dopo contrattazioni e cessioni tra i grandi attori internazionali. Il conflitto libico è a tutti gli effetti una proxy war, ha rimarcato.

I turchi, ad esempio, hanno interessi e legami storici ben radicati a Tripoli, dove erano presenti già prima delle ostilità; “più preoccupante” la presenza dei russi, corpo davvero “estraneo” in quell’angolo del Mediterraneo, ha detto il direttore. Per limiti strutturali l’Europa non dispone delle forze per fronteggiare Mosca, ma potrebbe averla unitamente agli Stati Uniti, rientrati nei giochi (anche se da lontano) con la presidenza di Joe Biden.

Secondo Karim Mezran, Resident Senior Fellow dell’Atlantic Council, gli stati europei hanno sì aiutato a preparare il retroterra per il passaggio dal momento militare a quello politico, ma la svolta è avvenuta nel 2019 sul campo militare, con l’intervento turco a sostegno delle forze tripolitane, senza il quale la capitale sarebbe probabilmente caduta in mano alle forze cirenaiche del generale Haftar.

Così l’inattività europea, concretizzata nell’inefficacia della missione navale Irini (che sostiene l’embargo di armi sulla Libia nel Mediterraneo ma non fa nulla per l’equipaggiamento che arriva, via Egitto o per via aerea, ai cirenaici), diventa un fardello sulla credibilità degli Stati dell’Unione. Come anche alcune ambiguità politiche, tipo la Francia schierata per anni con la fazione cirenaica, gli incontri istituzionali tra il governo di Giuseppe Conte e Haftar e le visioni contrastanti tra Roma e Parigi che hanno di fatto causato l’inerzia dell’intera Unione.

“La cosa migliore che ha potuto fare l’Italia è stata tenere l’ambasciata aperta”, ha commentato Mezran evidenziando il ruolo essenziale e proattivo svolto dall’ambasciatore Giuseppe Buccino nell’evitare che la visione negativa dell’Italia prendesse piede tra i libici. Motivo per cui l’Italia di Draghi (verso cui la classe politica libica non è ostile) rimane la candidata ideale per muovere la longa manus euro-atlantista in supporto a Tripoli. Anche perché, come ha sottolineato Saini Fasanotti, gli americani sono ben contenti di lasciare la situazione mediterranea in mano all’Europa in vista delle loro priorità domestiche e internazionali.

Varvelli ha parlato di un “riallineamento molto positivo” in Europa, specie tra Francia, Germania e Italia, dopo anni di deleteria ambiguità responsabile per il vuoto geopolitico in cui si sono infilate le potenze straniere. Draghi può essere il punto di riferimento occidentale perché a livello domestico il suo governo di unità nazionale facilita una politica estera realmente bipartisan, mentre a livello internazionale gode di ottima credibilità presso Usa e i Paesi europei – importantissimo, nell’anno in cui Angela Merkel lascia il timone della Germania e Emmanuel Macron si appresta ad affrontare le elezioni in Francia. Ora sta all’Italia trasformare l’analisi di cui è capace in azione politica, ha detto l’esperto.

Si tratta perciò di coordinare lo sforzo europeo per sorreggere al meglio Tripoli. Le priorità emerse al live talk iniziano dalle elezioni libiche in calendario per il 24 dicembre, da favorire e legittimare con una missione tecnica europea. “Accademicamente parlando, le elezioni sono un errore perché cristallizzeranno le divisioni già esistenti”, ha commentato Mezran; “ma bisogna farle a tutti i costi perchè sono l’unico modo in cui i libici possono riappassionarsi alla politica” e far ripartire il processo democratico.

La stabilità passa anche dal potenziamento della missione Irini (la quale deve aumentare gli occhi in cielo e gli sforzi più in generale per evitare di penalizzare solo i turchi, che peraltro sarebbero alleati Nato) e gli aiuti concreti per ricucire il tessuto socio-economico della Libia, la cui economia dipende al 95% dall’esportazione del petrolio ed è essenzialmente priva di settore privato; incapace, dunque, di assorbire nuova forza lavoro e limitare le adesioni alle milizie. “L’Italia deve attivarsi in questo senso, siamo maestri del privato e dell’imprenditoria”, ha commentato Saini Fasanotti, “ma la [sua] azione deve essere più incisiva”.

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