Intervista a Marco Alberti, senior international institutional officer di Enel: nonostante i progressi, nella lotta al cambiamento climatico siamo ancora abbastanza indietro rispetto agli obiettivi di Parigi. Occorre alzare l’ambizione, governi e imprese, insieme. Il vertice sul clima, insieme alla presidenza italiana G20 e a alla Cop 26, rappresenta un’occasione unica per porre questi temi al centro dell’agenda internazionale, sia di quella multilaterale, sia di quella alla base del dialogo transatlantico
La diplomazia ambientale come espressione di quella economica. Questo il pensiero alla base di un’ampia strategia che immagina di valorizzare la sostenibilità tramutandola in fattore competitivo. Un campo in cui l’Italia schiera un player significativo come Enel, che contribuisce al posizionamento del paese sullo scacchiere internazionale. Marco Alberti, senior international institutional officer di Enel, in questa intervista ragiona con Formiche.net sulle prospettive del gruppo in ambito energetico, ma tarandole sulle nuove sfide che attendono il globo già oggi, come la transizione, l’agenda ambientale e climatica nella consapevolezza che posizionare il Paese come climate champion globale significa anche attirare investimenti.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, gli investimenti globali nell’energia a basse emissioni di carbonio dovranno aumentare di due volte e mezzo entro il 2030 dal suo livello attuale per centrare gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi. Enel a che punto è?
Enel ha scommesso prima di altri su questa transizione e oggi occupa una posizione di leadership. Opera in 32 Paesi ed è leader nelle principali dimensioni della transizione energetica, con circa 74 milioni di clienti, oltre 2 mln di km di reti e quasi 49 GW di capacità rinnovabile gestita. È la prima utility in Europa e la seconda al mondo per capitalizzazione di mercato. La sua produzione a zero emissioni ha raggiunto il 65% della generazione totale, e il suo obiettivo resta la completa decarbonizzazione del mix al 2050. Al 2030, la Società prevede di investire nel complesso 190 miliardi di euro, triplicando la sua capacità rinnovabile installata e portando il numero di utenti finali a oltre 90 milioni nel mondo, digitalizzati al 100%. Il Gruppo quindi sta facendo la sua parte. E, per come la vedo io, si tratta di un campione nazionale che contribuisce al posizionamento internazionale dell’Italia in questi settori-chiave, e forse dell’unico caso in cui l’Italia è in grado di esprimere la prima azienda in Europa e la seconda al mondo. Merito al suo management, che l’ha trasformata in una utility aperta, dinamica, flessibile e che ora la sta portando ad essere una vera piattaforma.
Il clima è progressivamente diventato arena di competitività per Stati e città, come dimostra il volume di investimenti registrato. Come vincere la competizione?
Nel rapporto NATO 2030, il cambiamento climatico è indicato come una delle sfide fondamentali del nostro tempo, per le possibili minacce alla sicurezza e agli interessi economici di tutti i trenta Paesi dell’Alleanza. Un pianeta malato, evidentemente, è anche un rischio finanziario; gli investitori lo hanno capito e si stanno riorientando verso modelli più sostenibili, garanzia di stabilità e creazione di valore, anche in situazioni di crisi. Nel 2020, gli investimenti in ESG sono addirittura cresciuti nonostante la pandemia e proprio mentre è in corso questa intervista, Enel ha annunciato un Sustainability-linked guarantees agreement da 1,35 miliardi con BBVA. Ma le pressioni sul clima vengono anche dalle opinioni pubbliche; gli impatti del cambiamento climatico sono una minaccia alla salute, non solo un argomento del negoziato multilaterale. Secondo l’OMS, ogni anno muoiono nel mondo 7 milioni di persone a causa delle stesse emissioni responsabili del cambiamento climatico. Per intenderci, quasi il doppio delle vittime sinora causate finora dal Covid-19. Questa situazione sta producendo due effetti. Il primo, accelerare la transizione verso una idea di sostenibilità ambientale non più intesa come meccanismo correttivo delle politiche nazionali o del business aziendale, ma come leva strategica per garantire vantaggio differenziale, certezza normativa e stabilità. Il secondo è trasformare il clima in un “ambiente competitivo”, cioè un contesto nel quale Stati, città, aziende si misurano e si confrontano, creando nuove opportunità, filiere industriali, posti di lavoro, innovazione, sviluppo inclusivo e sostenibile. Non a caso, ad esempio, le città sono “misurate” nel Sustainable Cities Index, che ha nella qualità dell’ambiente uno dei parametri essenziali. Credo che per vincere questa “competizione” occorrano per lo meno tre scelte. Innanzi tutto, passare da un’idea di sostenibilità ambientale “project based” ad una “strategy based”. Considerare la sostenibilità come fattore competitivo significa trasformare il modello, non solo adattarlo. Vale per le strategie nazionali, per le politiche urbane e tanto più nel mondo economico. Secondo Irena, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’Accordo di Parigi, gli investimenti in transizione energetica dovranno aumentare del 30% rispetto a quelli attuali, per un totale di 131 trilioni di dollari da qui al 2050. In secondo luogo, occorre scommettere sul dialogo pubblico-privato. Senza la visione dell’uno e le risorse dell’altro, impossibile restare competitivi; in tal senso, l’Agenda ONU 2030 è un’occasione per riscoprire nuove forme di collaborazione strategica, sia all’interno dei Paesi, sia fra di loro, valorizzando la diplomazia ambientale come espressione di quella economica. Infine, la sfida si vince iniettando massicce dosi di innovazione tecnologica. È anche grazie a quest’ultima, infatti, che dal 2010 il costo delle nuove installazioni di solare fotovoltaico ed eolico si è ridotto rispettivamente del 70% e del 25%., accelerandone lo sviluppo. Come hashtag, vale quanto detto dall’AD di Enel, Starace: “Sustainability is the goal, innovation is the tool”.
L’agenda ambientale e climatica dell’Italia occuperà un posto centrale anche in occasione della presidenza del G20. Climate diplomacy, quanto sarà decisiva nel prossimo ventennio per l’Italia e per le sue aziende strategiche?
L’agenda della presidenza italiana ha tre pilastri: People, Planet, Prosperity. Ognuno ha un legame strettissimo con la sostenibilità ambientale, e l’Italia ha la grande opportunità di porre definitivamente questa sfida al centro del dibattito (e della collaborazione) internazionale. Quella italiana è la prima presidenza europea del G20 dopo l’approvazione del Green Deal, ma anche la prima che avrà a che fare con la nuova Amministrazione USA e con una Cina impegnata a raggiungere la neutralità climatica al 2060; inoltre, viene esercitata dal nostro Paese insieme alla co-presidenza della Cop 26. Sono circostanze uniche per ribadire che non esiste prosperità senza crescita sostenibile, e che occorre affrontare una crisi, quella economico-finanziaria causata dalla pandemia, senza aggravarne un’altra, cioè quella ambientale. Qui sta la vera sfida, che è di tutti i Paesi, quindi anche delle loro diplomazie. Una sfida allo stesso tempo politica, economica e tecnologica, perché non è possibile disgiungere l’ambiente dalla competitività economica, e quest’ultima dall’innovazione tecnologica. Si pensi all’importanza del nesso energie rinnovabili-reti elettriche: sulle infrastrutture elettriche convergono molteplici tecnologie, e le reti rappresentano, oltre che un fattore critico in termini di cyber security, anche uno snodo decisivo per garantire la transizione energetica e consolidare potere e influenza. L’Europa è un trend setter e la scelta del Green Deal ci ha posizionato bene. Questo è il momento di pensare a filiere europee nei settori della green economy, per trasformare in dividendo economico le scelte politiche fatte in materia ambientale. Su ciascuno di questi dossier, la diplomazia ambientale avrà un ruolo (e una responsabilità) di primo piano. Posizionare il Paese come climate champion globale significa anche attirare investimenti, promuovere innovazione, sostenere la competitività delle imprese appartenenti al suo Sistema, quelle grandi ma anche le PMI. Bisognerà lavorare insieme, perché in questo settore la “industrial capacity”, per così dire, è ancora maggiore della “regulatory readiness”. Un gap da ridurre. In tal senso, la creazione del Ministero per la Transizione Ecologica è una scelta molto importante e tempestiva, che va nella direzione di un’azione-Paese.
Enel ha un braccio verde americano che gestisce oltre 60 impianti rinnovabili in 15 stati. Il mercato Usa quanto è rilevante?
Enel opera negli USA dal 2001, ed attualmente impiega nel Paese quasi 1300 persone. Ad oggi il Gruppo ha investito oltre 7.5 mld di euro e nei prossimi anni prevede ulteriori e consistenti investimenti; gestisce 6 GW di capacità rinnovabile, 4.7 GW di demande-response e 70.000 punti di ricarica per autoveicoli. Questi dati parlano da soli, ma non raccontano tutta l’importanza degli USA per Enel, sia in termini di presenza, sia in termini di possibile crescita. Ad esempio, grazie all’acquisizione di Enernoc, società USA attiva nei servizi di gestione energetica smart, Enel X è diventata dal 2017 leader mondiale nel settore del demand-response, decisivo per la transizione energetica. E ancora, proprio negli Usa Enel Green Power realizzerà uno dei suoi primi progetti di produzione di idrogeno verde, insieme a NextChem, controllata di Maire Tecnimont, per la fornitura di energia ad una bioraffineria. Non solo: scommettendo su innovazione e sostenibilità, il Gruppo ha aperto due Innovation Hub, uno a San Francisco e uno a Boston, che lavorano con start-up, innovatori, accademia, problem solver di ogni tipo. Da quegli hub, costruiti sull’idea di open innovation, sono nate soluzioni che hanno contribuito a posizionare Enel come leader globale nella transizione energetica. Ciò che convince di Enel è il modello nel suo insieme, la sua visione anticipatoria, trasformativa e sostenibile. Negli USA le cose sono sempre andate bene; da ora in avanti, probabilmente, andranno anche meglio.
Il prossimo appuntamento annunciato da Biden per il 22-23 aprile quali passi programmatici potrà segnare?
Con il ritorno nell’Accordo di Parigi e la nomina di John Kerry ad inviato speciale per il clima, l’Amministrazione Biden ha chiarito una priorità. Ora vuole spiegare come intende declinarla, pragmaticamente, candidandosi a coordinare l’impegno per la lotta al cambiamento climatico. Quest’ultimo, come detto, presenta rilevanti impatti geopolitici e di riassetto di potenza, nonché implicazioni sulla sfida digitale del XXI secolo, alla quale si ricollegano i grandi temi del rilancio economico post pandemia e della competitività globale. Tre diverse transizioni al tempo stesso, energetica, digitale e di riequilibrio di potenza. Immagino dunque che il vertice americano affronterà l’argomento clima sia dal punto di vista delle opportunità di crescita sostenibile che dalla prospettiva delle possibili minacce. Nonostante i progressi, nella lotta al cambiamento climatico siamo ancora abbastanza indietro rispetto agli obiettivi di Parigi. Occorre alzare l’ambizione, governi e imprese, insieme. Il vertice sul clima, insieme alla presidenza italiana G20 e a alla Cop 26, rappresenta un’occasione unica per porre questi temi al centro dell’agenda internazionale, sia di quella multilaterale, sia di quella alla base del dialogo transatlantico. Le circostanze sono propizie per un rilancio della dinamica multilaterale, ma anche per delineare uno spazio transatlantico di “innovazione tecnologica pulita”, a sostegno della cooperazione politica ed economica. Lotta al cambiamento climatico e green economy sono settori nei quali l’Europa può vantare una leadership globale e un’“autonomia strategica” più marcata. Una posizione che va trasformata in vantaggio competitivo, come indica il Green Deal. Recentemente, intervenendo in un workshop, il ministro Cingolani ha richiamato “Europa e Stati Uniti a convincere tutti gli altri Paesi che la decarbonizzazione è un obiettivo comune”, sottolineando la portata planetaria della sfida. Questo è lo spirito. Una collaborazione transatlantica in materia clima-energia, d’altra parte, aiuterebbe a garantire che la transizione energetica sia “just”, non solo “fast”, cioè più giusta per tutti e soprattutto e gestita senza causare effetti destabilizzanti per i Paesi più vulnerabili o le Regioni del pianeta maggiormente esposte.
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