Per settantasei anni l’École nationale d’administration ha rappresentato il riferimento della Francia che sapeva di poter contare su funzionari e su politici di alto livello, tra i quali qualche presidente della Repubblica, molti ministri e primi ministri. Macron vuole a tutti i costi essere ricordato come un innovatore. E non v’è dubbio che c’è riuscito. Sbagliandole tutte, però
L’Europa ha un disperato bisogno di élite. La loro mancanza ha fatto emergere lo sgangherato populismo che sta mettendo alle corde la politica continentale e la formazione di partiti politici all’altezza dei tempi e delle esigenze. Oltre alla Pubblica amministrazione che ovunque, salvo in forse in Germania, presenta gravi deficienze in tutti i settori. Non esclusa la burocrazia dell’Unione che a Bruxelles e a Strasburgo sta dando il peggio di se stessa, come dimostra la vicenda dei rapporti stabiliti con le industrie farmaceutiche e la relativa stipula dei contratti per la fornitura dei vaccini. Le élite hanno governato i popoli, piaccia o non piaccia. E non c’è bisogno di scomodare Mosca, Pareto e Michels per asseverarlo, tanto nella guida della cosa pubblica quanto nella costruzione di visioni politiche capaci di antivedere i mutamenti sociali e l’emergere dei movimenti civili.
Oggi più che mai il tema della meritocrazia è centrale in tutte le democrazie, specialmente in quelle occidentali. Ma chi se ne cura? Basta dare uno sguardo a quel che avviene nel “comparto” politico-amministrativo del nostro Paese per rendersene conto. Il reclutamento della classe dirigente è approssimativo nel migliore dei casi quando non tragicamente ridicolo. Avremmo bisogno, in Italia come in Europa, di scuole migliori, di licei umanistici come li avevano immaginati Benedetto Croce e soprattutto Giovanni Gentile, di istituti scientifici in grado di interagire con le grandi e qualificate industrie e con la ricerca più avanzata, di centri di orientamento manageriale rigorosi perché nessuno a cuor leggero possa dire di svolgere la funzione di manager senza neppure conoscerne il significato.
Un libro dei sogni, insomma. Sogni che si tramutano in incubi quando apprendiamo che Emmanuel Macron, figlio adottivo dell’élite burocratica e finanziaria, fornito di squisita preparazione umanistica, decide di chiudere la rinomata École national d’administration (l’Ena) con la speciosa motivazione che la crescita delle classi dirigenti deve avvenire dal basso. Che significa? Forse intende evitare che i meno abbienti non siano esclusi dalla frequentazione di scuole serie, severe e autenticamente formative?
Ipotesi tutt’altro che campata in aria. Lo scorso febbraio, infatti, il Capo dello Stato ha annunciato di perseguire lo sviluppo di un settore di “talento” dall’inizio dell’anno scolastico 2021, con l’obiettivo di rendere la scuola più accessibile agli studenti provenienti da ambienti modesti. Una suggestione classista. Le costose rette, già affiancate dal contributo dello Stato, si sarebbe potuto provvedere ad abbassarle o ad integrarle con l’esborso di maggiori finanziamenti pubblici, mentre l’accesso dovrebbe essere giustificato dal solo criterio che dovrebbe motivare operazioni del genere: la verifica delle qualità intellettuali e culturali dei candidati dei quali si sarebbe dovuto valutare il percorso formativo generale per poterli ammettere a una rigorosa selezione. Non c’entra niente la dichiarazione dei redditi. Anche i più modesti possono ascendere alle più alte gerarchie pubbliche amministrative e politiche. E questo Macron lo sa. A meno che non voglia dire che l’apprendimento deve essere più “leggero” per permettere a tutti di accedere a una formazione mediocre? Non può essere: sarebbe una barzelletta mal riuscita.
Francamente non comprendiamo il senso dell’abolizione di un autentico laboratorio di creazione della classe dirigente francese che ancora oggi, in tutti i settori pubblici, costituisce il nerbo dello Stato centralista francese.
Ci sembra una misura demagogica non a caso annunciata alla fine della crisi conflittuale con i gilet gialli nel 2019 in una conferenza ai massimi dirigenti pubblici francesi. In quell’occasione disse: “Penso che bisognerà superare l’Ena per costruire qualcosa che funzioni meglio”. Ora noi la Scuola che Macron vorrebbe chiudere la conosciamo, non sappiamo invece nulla di quel che ne vuol fare sostituendola, immaginiamo, con qualcosa che l’assomigli.
Certamente è lecito cambiare, migliorare, adeguare ai tempi anche le strutture formative e, in più basso grado, quelle educative. Ma che senso ha gettare all’aria una istituzione che funziona senza aver reso noto il profilo di ciò che la sostituirà?
L’École nationale d’administration (Ena) è stata istituita il 9 ottobre 1945 dal Governo provvisorio della Repubblica Francese, allora presieduto dal generale de Gaulle per garantire la formazione di una nuova classe dirigente per la neonata repubblica. La decisione era stata preparata da una commissione di riforma della Pubblica amministrazione, guidata da Maurice Thorez, vicepresidente del consiglio e segretario del Partito Comunista Francese. Protagonista della sua creazione fu il ministro Michel Debré, maître des requêtes al Consiglio di Stato, che animò la fondazione della scuola e ne fu il direttore. L’obiettivo era di creare una classe amministrativa unitaria tramite un concorso unico, affermando quindi il principio meritocratico contro quello clientelare, privando gruppi di potere della facoltà di cooptare chi gli faceva più comodo.
Per settantasei anni l’Ena ha rappresentato il riferimento della Francia che sapeva di poter contare su funzionari e su politici di alto livello, tra i quali qualche presidente della Repubblica, molti ministri e primi ministri e numerosi presidenti di dipartimenti oltre che capitani dell’industria pubblica. Macron vuole a tutti i costi essere ricordato come un innovatore. E non v’è dubbio che c’è riuscito. Sbagliandole tutte, però.