Skip to main content

Minimum tax, massima difficoltà. Le due anime del progetto Yellen

Fed

L’imposta sui profitti generati all’estero poggia su due pilastri. Pagare le tasse a prescindere dalla presenza fisica in un Paese e un’aliquota tra il 15 e il 21%. Una percentuale che può fare la differenza

Le due anime della minimun tax. L’operazione messa in cantiere dal G20, amplificata dall’Ocse e frutto dell’input del segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, nasconde in realtà una variante, anche se il ceppo è sempre quello: un riassetto fiscale su scala globale, il cui perno è la tassazione standard sui profitti delle multinazionali, a cominciare da quelle del web. A monte dell’operazione fiscale nata per porre fine al regno dei paradisi fiscali e finanziare i piani pandemici allestiti dai governi mondiali, ci sono infatti due anime, diverse ma collegate.

Partendo dalla prima, tutto ruota intorno al concetto di presenza economica di un’azienda in un determinato Paese. In particolare con la minimum tax si punta a modificare le norme sull’allocazione dei profitti da parte di una multinazionale, andando a creare un nesso tra la presenza economica di una società e il Paese in cui matura i profitti al di là della sua presenza fisica. È insomma una modifica rivolta chiaramente alle grandi tech company che spesso giocano sul fatto di non essere presenti fisicamente in un Paese per non pagarvi lì le tasse. In questo modo, cade il principio che si pagano le tasse solo se si è presenti in loco con gli uffici. Se si generano profitti in un determinato Paese pur non essendovi fisicamente presenti, le imposte vanno pagate.

Il secondo pilastro è quello più tecnico. Chiarita la natura e i principi della minimum tax (si paga se si fanno utili a prescindere dalla presenza fisica), resta l’aspetto tecnico. E cioè fissare l’aliquota base sulla quale far poggiare l’imposta. Qui è scesa in campo direttamente Janet Yellen, mettendo l’asticella al 21%. Ma è, appunto, solo una proposta, anche perché l’Ue sembra propendere per un’aliquota al 15%. Da questa percentuale dipende il futuro e il senso stesso dell’intera operazione, nonché la violenza dell’impatto sui paradisi fiscali. Una multinazionale che paga in Irlanda un’imposta del 12,5% sarebbe infatti costretta a pagare la differenza negli altri Stati in cui fattura. E tra il 15% e il 21% come vorrebbero gli Usa c’è differenza visto che il gap sarebbe tra il 2,5 e il 13,5%.

Un doppio binario c’è poi anche sul fronte dell’approvazione di una simile imposta. La Casa Bianca ha inviato la proposta a quasi 140 capitali impegnate da tempo in trattative multilaterali in ambito Ocse finora procedute a rilento. Se il piano statunitense fosse accettato in sede G20 e successivamente Ocse, molti Paesi sarebbero in grado di aumentare le rispettive entrate fiscali, visto che i numerosi colossi tecnologici che operano nelle loro giurisdizioni hanno finora versato le tasse nel Paese che ne ospita la sede fiscale, quasi sempre un contesto offshore. La stessa proposta di Washington riflette l’obiettivo più ampio di Biden di porre fine a quella corsa al ribasso sulla tassazione globale che ha privato i governi delle entrate necessarie per finanziare i servizi di base e gli investimenti. Ma, per l’appunto, ci sono da mettere d’accordo decine di Paesi.


×

Iscriviti alla newsletter