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Covid, un trauma collettivo. La terapia biblica di Civiltà Cattolica

Padre Giovanni Cucci illustra sul numero in uscita de La Civiltà Cattolica come si può uscire dal trauma della pandemia. È la speranza che va ricercata e la Scrittura può essere una terapia di fronte a eventi tragici. Ma il coronavirus riguarda la comunità umana intera e richiede reazioni concordate a livello globale. Ed è qui che anche papa Francesco ha una risposta

C’è una parola decisiva nella vicenda pandemica nella quale tutti siamo immersi: trauma. Che si fa? La terapia che padre Giovanni Cucci illustra sul numero de La Civiltà Cattolica che uscirà sabato è questa: raccontarlo. Ma il trauma come si racconta? Una delle modalità più semplici è quella apocalittica: il trauma annuncia la fine, tutto è perso: addio.

Questo racconto lo definirei “facile”: nulla è più facile che indossare i panni di Cassandra. Quella che si cerca è una speranza. Così padre Cucci esordisce parlandoci della Bibbia, e soprattutto della suggestiva teoria di David Carr, uno dei massimi esperti mondiali sulla formazione dei libri biblici, “Santa resilienza. Le origini traumatiche della Bibbia”. Padre Cucci ci informa che Carr ha scritto questo libro “in seguito a un grave incidente, che lo ha costretto all’immobilità per molto tempo; le sue letture sul trauma in quel periodo gli hanno permesso di vedere la Bibbia con occhi nuovi”, rendendolo sensibile ai modi in cui le Scritture si sono formate nel contesto di secolari sofferenze catastrofiche […] e cita Carr:  “Per decenni avevo letto questi documenti e scritto libri sulla formazione dei testi biblici nel crogiolo della storia. Ma non mi ero reso conto, non a questo livello, di quanto essi fossero imbevuti di trauma”.

Dunque la Scrittura come terapia di fronte a eventi tragici, che ne ha consentito una rilettura che consentisse vitalità, elaborazione del lutto. Di più: “Ma Carr fa un passo ulteriore: la sua ipotesi di fondo è che la Bibbia sia nata come risposta alla sofferenza comunitaria, come memoria collettiva del trauma; è questa la grande differenza rispetto al trauma individuale, che resta congelato alla memoria”.

Dunque il trauma non conclude una storia, ma può determinare una reazione: “La narrazione biblica affronta tematiche scomode, non attraenti, ma indispensabili, e presenta un Dio che non dà soluzioni al problema, ma condivide la sofferenza. Attraversa il trauma, non lo elimina. E consegna all’umanità la speranza, in modo narrativo, non con trattati o programmazioni”.

Se questo, detto in poche parole, è l’esempio biblico, noi oggi piuttosto che cedere alla tentazione apocalittica dovremmo considerare che “i fallimenti non smentiscono la promessa, piuttosto educano il desiderio, rafforzano la vigilanza e aiutano a cogliere possibili avvertimenti per le generazioni future. In questa prospettiva, il trauma contesta i criteri con i quali tendiamo a leggere la realtà e può diventare opportunità per un inaspettato salto di qualità”.

In ballo c’è, è chiaro, il benessere. Siamo sicuri che il benessere sia stato solo benessere? Stiamo bene? O forse abbiamo sbagliato qualcosa? Si sente in questo passaggio una domanda che ovviamente è del lettore: “A cosa serve riaprire prima di capire perché siamo stati costretti al lockdown?”. Siamo comunque al punto, cioè al mito del progresso lineare, quello che troviamo in alcune teorie, ad esempio quella del fascismo quale parentesi storica: “La narrazione del trauma mette radicalmente in discussione il mito del progresso lineare e inarrestabile: un mito che, tuttavia, nonostante le ripetute smentite dell’ultimo secolo, sembra ancora essere oggetto di una fiducia indiscussa. Smentisce soprattutto una lettura faustiana della storia in cui l’uomo, grazie alla scienza e alla tecnica, è in grado di padroneggiare il mondo e piegarlo ai propri progetti. Il caos non può essere eliminato, perché è parte della vita; la Bibbia lo mostra presente nel mondo fin dalla sua prima pagina. La narrazione traumatica è un’esperienza di realtà: il trauma può rendere consapevoli del fatto che la vita comporta la casualità della sofferenza. Coloro che sono sopravvissuti/e ad un trauma hanno imparato che la loro concezione del mondo può andare in pezzi da un momento all’altro ed essere sostituita da una realtà del tutto inaspettata”.

Certo il caos non implica assenza di regole, ma non è una gabbia d’acciaio. Però le regole esistono, e tra queste c’è la natura, alla quale è pericoloso fare violenza. Ma allora la catastrofe era annunciata? Sembra di sì e padre Cucci colpisce citando uno studio pubblicato lo scorso anno: “Secondo molti scienziati l’apparizione di nuovi virus è diventata più frequente a causa delle attività umane che alterano il processo di trasmissione delle malattie dal mondo animale a quello umano. Queste malattie – che comprendono infezioni causate da virus, batteri, funghi, altri organismi o agenti proteici non convenzionali (prioni) – sono ormai molto numerose: oltre 200 secondo l’Oms. L’elenco include rabbia, leptospirosi, antrace, Sars, Mers, febbre gialla, dengue, Hiv, ebola, chikungunya, i coronavirus”.

Dunque il trauma era annunciato e oggi riguarda la comunità. Trattandosi di una pandemia riguarda la comunità umana intera e richiederebbe reazioni concordate a livello globale. Si vedono? “In questa come in altre questioni fondamentali della tutela dell’ambiente è mancata proprio la dimensione globale, e ha prevalso l’individualismo, a livello personale e nazionale. È triste constatare come la notizia della diffusione del Covid-19 giungesse quasi contemporaneamente al fallimento del Forum dei grandi sulle possibili misure di contrasto dell’inquinamento. Non si sono voluti prendere provvedimenti per non penalizzare il profitto. E il prezzo da pagare è stato molto più pesante, in tutti i sensi”.

Qui padre Cucci ci coglie alla sprovvista, stabilendo un importantissimo parallelo tra il mancato rispetto per la natura e quello per il passato, con la distruzione di statue e la citazione del papa fa capire il nesso: “La ignominia del nostro passato è parte di ciò che siamo e di chi siamo. Se ricordo la storia non è per onorare gli oppressori di un tempo, ma per rendere omaggio alla testimonianza e alla grandezza d’animo degli oppressi. Ricordare la colpa altrui per proclamare la mia innocenza è molto pericoloso. Ovviamente coloro che hanno abbattuto le statue lo hanno fatto per richiamare l’attenzione sugli oltraggi commessi, e per negare qualsiasi tipo di omaggio a chi li aveva perpetrati. Ma quando giudico il passato con gli occhi del presente […] corro il rischio di commettere altre ingiustizie e di ridurre la storia di una persona alle mancanze che ha compiuto”. Dunque serve rispetto, cioè consenso a livello comunitario.

I guasti che proseguendo nel racconto si incontrano sono guasti altrettanto gravemente e drammaticamente connessi: il livello di decessi, la denatalità e l’invecchiamento della popolazione non sono elementi chiaramente connessi? Non dipenderà tutto questo, invecchiamento, denatalità e conseguente alta mortalità, da un mal digerito desiderio di benessere, cioè dalla crisi profonda della cultura dell’ospitalità, quell’ospitalità tanto denigrata da chi non cogliendo il punto scarica ogni responsabilità sui migranti? È ancora Francesco a spiegare facile: “Il frutto del benessere egoistico è la sterilità. L’inverno demografico che stiamo attraversando è frutto della cultura compiaciuta del benessere egoistico. Per tanti è difficile capire come il ‘benessere’, che pare tanto desiderabile, possa essere una condizione da cui abbiamo bisogno di essere liberati”. Si può non concordare che questo trauma può diventare, se raccontato comunitariamente, un’occasione di crescita?

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