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Un Pnrr per la crescita e la credibilità del Paese. L’analisi di Zecchini

Tutti gli italiani si augurano che lo sforzo serva per una nuova era di crescita notevole e durevole. Tuttavia, una tale impresa richiede ai soggetti pubblici, come alle imprese, di elevarsi all’altezza della grande sfida di attuare il Piano nei tempi prefissati ed efficacemente, perché in gioco è anche il recupero di credibilità del Paese. L’analisi di Salvatore Zecchini, docente ed economista dell’Ocse

Se si vuole un’immagine icastica di quanto poca sia la credibilità dell’Italia tra i suoi partner europei basta vedere il premier che all’ultimo momento per ben due volte ha dovuto telefonare alla presidentessa della Commissione Ue per poter chiudere un negoziato interminabile sulle riforme richieste nel Pnrr. È l’immagine di un Paese che negli ultimi due decenni ha sentito tutti i suoi governi prendere grandi impegni di introdurre riforme per la crescita e poi le ha viste di portata modesta ed attuate al minimo e in ritardo. Quante volte gli italiani hanno ascoltato annunci di nuovi provvedimenti di semplificazione normativa e regolamentare, di efficientamento della Pa, di riforma della giustizia e del fisco, di misure per lo sviluppo del Sud e per la concorrenza, per poi dover costatare risultati deludenti?

Il premier attuale, come i passati, ha impegnato la sua credibilità personale per l’attuazione di un programma di riforme importanti, ma è un impegno che lascia il tempo che trova, non tanto perché la legislatura termina normalmente tra due anni, ma perché non poggia su un fermo e sentito consenso tra le forze politiche e sociali, come sarebbe necessario. Sono riforme chieste dall’esterno ed accettate come condizione per ottenere notevoli finanziamenti, riforme che le tante corporazioni, incluse quelle dei lavoratori, faranno di tutto per rendere poco incisive e non intaccare i loro interessi. Il premier attuale non è un taumaturgo e deve prepararsi alle resistenze che non emergeranno nella forma e nel numero dei provvedimenti, bensì nel far effettivamente cambiare il sistema Italia. Bisogna riconoscere che Bruxelles, in quanto soggetto esterno che indica la direzione opportuna del cambiamento e controlla gli esborsi finanziari, è più capace di fare penetrare nella realtà del Paese le mutazioni profonde di sistema, che si richiedono per il ritorno del Paese alla prosperità e credibilità.

Le riforme sono anche l’aspetto maggiormente innovativo del Pnrr in versione Draghi rispetto a quello precedente, a cui si aggiungono significative differenze nella distribuzione delle risorse, in alcuni progetti per il rinnovamento tecnologico e la digitalizzazione del Paese, nelle scadenze operative e nella governance del programma. Pur con una buona dose di retorica e di ripetizioni, il documento del Pnrr si distingue dal precedente nel porre in prima linea le riforme, a cui è affidato il compito arduo di ridare slancio all’economia migliorando la qualità della spesa pubblica ed incoraggiando gli investimenti privati e l’innovazione. Il tutto inquadrato in sei missioni e 16 componenti che rispondono ai sei pilastri fissati dall’Ue nell’iniziativa Ngeu.

Si inizia con quattro importanti riforme di sistema, o di contesto, che sono rivolte alla Pa, giustizia, semplificazione della normativa e promozione della concorrenza. Seguono nella presentazione quelle dirette a “modernizzare” il mercato del lavoro ed a modificare il sistema fiscale. Il documento distingue le riforme in orizzontali, rivolte a modernizzare il sistema, abilitanti per rimuovere ostacoli ed impedimenti, e quelle settoriali con obiettivi più ristretti, ma sente il bisogno di aggiungerne altre due con funzione di “accompagnamento”, ovvero di supporto al raggiungimento degli obiettivi del Piano. Queste ultime si preoccupano di affrontare le conseguenze sociali dei cambiamenti che si vuole indurre, concentrandosi sugli aspetti dell’equità discale e del potenziamento della rete di protezione dei redditi costituita dagli ammortizzatori sociali.

Entrando nei dettagli della descrizione delle riforme si nota una spinta più forte che nel passato decennio al superamento di rilevanti difetti di sistema, con un’ambizione che per la sua dimensione e rapidità di esecuzione è tutta da provare quando affronterà il duplice test del Parlamento e della Commissione. Il rischio maggiore è che nel passaggio parlamentare dei vari provvedimenti si attenuino le punte più incisive e si usi la gradualità, più volte menzionata, per negoziare nuovi accordi o compromessi con Bruxelles, col risultato di allungare i tempi del cambiamento. Il rischio politico, inoltre, non è da sottovalutare, considerato che prima del termine istituzionale della legislatura si entrerà in campagna elettorale, un periodo in cui il costo sociale delle riforme comincerà a essere visibile e le parti più accese dell’elettorato reagiranno facendo sentire la loro voce. Può anche darsi che il rimbalzo della crescita e dell’occupazione con la fine delle restrizioni sanitarie, insieme alla nuova consapevolezza che si entrerà in una nuova normalità dell’economia, serviranno a far digerire l’impatto delle riforme.

Nella riforma della giustizia il governo si distingue nell’andare oltre il semplice efficientamento dell’amministrazione per mirare ad accorciare l’iter dei processi, disincentivare il ricorso ai giudici con modalità alternative di composizione delle vertenze, contenere i tempi delle procedure esecutive, e abbreviare i procedimenti della giustizia tributaria. I dubbi sull’efficacia sorgono sugli strumenti che si intende usare, perché si ricorre principalmente a immissioni di personale e giudici in meno di due anni, digitalizzazione ed abbreviazione dei tempi. L’approccio è appropriato per accelerare i procedimenti esecutivi, ma per la tutela di diritti economici e contrattuali occorrono corti specializzate, procedure semplificate e sanzioni efficaci per illegalità e reati economici, aspetti non coperti nel Pnrr. Anche l’ordine giudiziario richiede interventi più incisivi per ottenere specializzazione dei giudici nel trattare le vertenze economiche e per responsabilizzarli per la loro attività e anche per la tempestività e solerzia nello smaltire il carico di lavoro. L’autoreferenzialità della magistratura non contribuisce a migliorare la sua immagine nel Paese.

In materia di semplificazione e miglioramento della regolamentazione è apprezzabile l’approccio che affronta il problema nella sua interfaccia con la PA e si estende su diversi campi dell’attività amministrativa. In particolare, enfatizza la necessità di uno sforzo continuativo nel tempo, intende far perno su personale competente, considera le ricadute in termini di contrasto alla corruzione e si fonda sull’estesa digitalizzazione per rendere efficienti le procedure.

Al potenziamento della concorrenza è assegnato maggior rilievo che nel passato per la sua importanza nel perseguire il benessere collettivo. L’obiettivo è perseguito senza introdurre grandi innovazioni negli strumenti, ma puntando a rimuovere le barriere all’entrata nel mercato e a ottenere efficienza e controllo nella gestione delle infrastrutture strategiche e nel perseguire la protezione ambientale. L’unica novità sta nell’impegno a rafforzare i poteri antitrust e di regolazione delle autorità indipendenti di settore, una misura che non ha trovato accoglimento nei governi precedenti.

Sul fronte fiscale non si prospetta una grande riforma, preferendo piuttosto puntare a riordinare, razionalizzare e semplificare le norme, azione accompagnata dal potenziamento dell’amministrazione tributaria e del contrasto all’evasione. Mentre si precisa l’obiettivo di giungere alla compilazione di un unico codice tributario, pochi dettagli sono forniti sulla revisione, e non riforma, dell’Irpef, che è orientata agli stessi obiettivi del resto della tassazione e possibilmente a “ridurre gradualmente il carico fiscale”.

Trattandosi di un quadro di riforme giudicato ambizioso dallo stesso premier, la scelta dei tempi di esecuzione va calibrata attentamente anche nella loro sequenza per sfruttare al meglio le loro interdipendenze e sinergie, ed evitare una caotica attuazione che può provocare un dannoso shock al sistema in una fase delicata della congiuntura economica. Nello scadenzario non si affronta il problema della coerenza temporale degli interventi; tuttavia, riaffiora il problema della credibilità dell’intento riformatorio con le conseguenti pressioni di Bruxelles a specificare le date. Il governo risponde anticipando all’anno in corso l’adozione dei primi provvedimenti e indicando un arco pluriennale entro cui l’attuazione sarebbe completata. Ne emerge che bisognerà attendere il 2024 per vedere completata gran parte dei provvedimenti, con implicazioni sui tempi in cui si potrà percepire l’impatto sulla crescita economica.

La nuova ripartizione delle risorse provenienti da Bruxelles dovrebbe contribuire ad accelerare la spinta alla crescita in quanto il governo ha concentrato maggiormente quelle aggiuntive sui capitoli della rivoluzione verde e della digitalizzazione, innovazione e competitività, che si prestano a un avvio relativamente più spedito. La frammentazione in centinaia di progetti tra cui alcuni di piccole dimensioni rappresenta, tuttavia, un punto di debolezza, se si vuole raggiungere massa critica ed ottenere una gestione sinergica e ben coordinata con altri progetti. Questa frammentazione appare come la proiezione della ripartizione di competenze che si trova tra gli uffici dei ministeri, che ne sono gli artefici e anche gli esecutori. Una formulazione più compatta, integrata e funzionale alle esigenze delle imprese consentirebbe una gestione più efficiente e meno dispendiosa.

Quanto più numerosi i progetti, tanto più critico è il ruolo del coordinamento tra i soggetti chiamati a condividerne le responsabilità. L’attuazione della maggioranza degli interventi pubblici in programma ricade tra le competenze dei Comuni, che in molti casi mancano di strutture adeguate per gestirli con l’efficienza e la tempistica richieste da Bruxelles. Né l’aiuto che il Governo ha promesso è in grado di colmare in tempi brevi queste lacune. Nondimeno è stata predisposta una struttura di governance del piano che lascia i compiti di attuazione degli investimenti e delle riforme agli enti decentrati ed avoca al Ministero dell’Economia i ruoli di coordinamento, supervisione, valutazione del raggiungimento dei traguardi, controllo e raccordo con la Commissione UE per i finanziamenti. Al livello della presidenza del consiglio è posta la supervisione politica, affidata a un comitato interministeriale appositamente costituito. Data la debolezza di questo disegno, è probabile che le manchevolezze e i problemi ai terminali periferici dello schema si rifletteranno al centro, costringendo quest’ultimo a dover agire in sostituzione o ad integrazione dei primi con grande dispendio di risorse. La scelta del governo di seguire il modello decentrato e multilivello di governance certamente servirà a responsabilizzare i soggetti più prossimi alla sfera attuativa, ovvero al territorio interessato, ma non è detto che la modalità operativa si riveli adeguata ed efficiente.

Probabilmente l’attuazione non raggiungerà quei livelli ottimali di performance assunti a ipotesi per condurre il grande esercizio di valutazione d’impatto macroeconomico e settoriale che è presentato in 20 pagine del Pnrr. L’esercizio è stato insistentemente richiesto da Bruxelles come test di verifica della validità del Piano, ma non può che fornire indicazioni approssimative perché frutto di simulazioni di sistemi economici operanti per raggiungere un ipotetico equilibrio generale ed integrati da ipotesi ricavate da modelli microeconomici. Il tutto poi poggia su assunti più ideali che attuali. Più articolato e complesso l’esercizio, e più probabile che piccole deviazioni nel microeconomico si sommino per generarne di grandi nel macroeconomico. Stando all’esercizio, dal 2025 in poi la crescita aggiuntiva a quella base dovrebbe superare i 3 punti percentuali, ossia si avrebbero ritmi di crescita di medio periodo superiori al 4% annuo, una vera meraviglia economica. Nel frattempo, si stima che nel triennio 2021-2023 consumi ed esportazioni subirebbero decurtazioni. Questo esercizio soddisferà le esigenze della Commissione, ma può costituire un metro troppo ambizioso di valutazione, perché non tiene conto di quanto lungo e faticoso sia nel Paese il processo di aggiustamento degli operatori economici al nuovo, né della distanza che separa la realtà documentale da quella effettiva. Può anche generare conclusioni incredibili, come quella secondo cui le riforme fatte nello scorso decennio avrebbero spinto la crescita nel 2019 in misura stimata tra 3% e 6%, che, confrontata col dato reale di +0,3%, implicherebbe che senza quelle riforme si sarebbe avuta una grave recessione.

Tutti gli italiani si augurano che lo sforzo serva per una nuova era di crescita notevole e durevole. Tuttavia, una tale impresa richiede ai soggetti pubblici, come alle imprese, di elevarsi all’altezza della grande sfida di attuare il Piano nei tempi prefissati ed efficacemente, perché in gioco è anche il recupero di credibilità del Paese.


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