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Bipolarismo Usa-Cina o concerto delle potenze? Da leggere l’amb. Stefanini

Haas e Kupchan propongono un’alternativa al bipolarismo Usa-Cina in stile Guerra Fredda: il concerto delle potenze. Ma visto il disordine globalizzato del XXI secolo c’è forse bisogno di entrambi. L’analisi di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consigliere diplomatico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e rappresentante permanente dell’Italia alla Nato

La politica internazionale vive anche di idee. Con “Il nuovo concerto delle potenze”, pubblicato su Foreign Affairs in marzo, Richard Haass e Charles Kupchan gettano un sasso nello stagno del dibattito sul contenimento della Cina. Nel momento in cui quasi nessuno, in America o in Europa, ne fa una questione di “se” ma solo di “quanto”, gli autori propongono un’alternativa che non elimina la rivalità ma la gestisce: il concerto delle potenze. Modellato su quello metternichiano del Congresso di Vienna del 1815, che assicurò quarant’anni di pace all’Europa, con un nuovo cast globale: “Cina, Unione Europea, India, Giappone, Russia e Stati Uniti”. Progetto irrealizzabile forse se preso alla lettera – gli autori probabilmente se ne rendono conto – ma traccia utile per introdurre elementi di coordinamento, stabilità e regole nelle relazioni internazionali del XXI secolo. Privo, a differenza del concerto europeo del 1815-1853, di una piattaforma ideologica comune, dovrebbe però convivere con la dinamica bipolare sino-americana e con la riottosità di una pluralità di potenze e attori non statali.

Sulla scena internazionale è tornata la gara fra grandi potenze rivali. È un copione che l’Europa conosce bene – a sue spese. Ma adesso il palcoscenico è mondiale. E il Vecchio continente – visto che continuiamo a rivendicare il titolo a un’anzianità storicamente discutibile – non è più il teatro principale. Il campo centrale è diventato il Pacifico dove tutti i bookmaker prevedono una finalissima Stati Uniti-Cina. Come a Wimbledon, però, vanno tenuti d’occhio anche gli altri campi dove non si possono escludere sorprese da parte dell’ex-campione russo, di tenaci vecchie glorie europee, dei ben piazzati giocatori indiano e giapponese, di vari aggressivi giovani fuori classifica provenienti dai vivaci vivai mediterranei, mediorientali, asiatici, africani, latino-americani.

Gli affari internazionali sono entrati in un clima competitivo fra i molti attori, con due favoriti, alcuni comprimari forti e tutt’altro che rassegnati a farsi da parte. Non è una partita ma un torneo multidimensionale. Si gioca nel Mediterraneo come nel Mar cinese meridionale, nell’Artico in disgelamento, nello spazio extra-atmosferico, ma anche nel cyberspace, nella tecnologia, nelle guerre commerciali.

Non manca la sfida ideologica su democrazia, diritti umani e stato di diritto. In Occidente, non c’è realpolitik che li possa ignorare. Per converso, i regimi autocratici difendono ormai senza falsi pudori le loro prerogative sovrane compresa la negazione delle libertà civili e la repressione del dissenso interno. Sono finiti i tempi in cui minimizzavano o nascondevano la mano dietro la schiena. Oggi, grandi potenze come la Cina e la Russia sostengono apertamente che la loro ragion di Stato prevalga sui diritti collettivi dei cittadini di Hong Kong o su quelli individuali di Alexei Navalny. Di conseguenza, Stati Uniti e Unione europea li sanzionano. Rebus sic stantibus, né gli uni né gli altri possono fare altrimenti: per i primi è in gioco la tenuta del regime; i secondi esprimono un sentire radicato nel pubblico, nei media, nei parlamenti. La spaccatura valoriale ha un doppio effetto: fa da freno al concerto fra potenze a lati opposti dello spartiacque ideologico; spinge all’aggregazione bipolare. “Autocrati di tutto il mondo, unitevi” se le democrazie fanno lega contro voi.

L’alba di millennio all’impronta di un nuovo ordine mondiale ha ceduto il passo alla quotidianità di disordine mondiale. L’interpretazione più coerente l’ha data Donald Trump. La sua America first si traduceva, come spiegò alle Nazioni Unite, nella convinzione che ogni Paese fosse libero di perseguire il proprio interesse nazionale in un equilibrio transattivo, sulla base dei rispettivi rapporti di forza. La filosofia di fondo non era molto diversa dalla “democrazia sovrana” di Vladimir Putin: uno Stato che si rispetti non cede sovranità e fa politica estera sulla base dei propri interessi.

Questa visione di anarchia internazionale è attraente per i sovranisti ma incontra due formidabili ostacoli – a parte il rischio fisiologico di guerre piccole o grandi in un mondo nucleare. Il primo è che fra Stati nazionali c’è un’interdipendenza economica da gestire, salvo improbabili ritorni autarchici. Il secondo è che ci sono “nemici” transnazionali da affrontare contro i quali o gli Stati collaborano fra loro – o perdono: cambiamenti climatici, terrorismo, proliferazione, pandemie. La cronaca recentissima, dal panico per il canale di Suez bloccato alle guerre dei vaccini, dimostra che, se il mondo globalizzato rimane senza istanze di quella che Haass e Kupchan chiamano “risposta collettiva”, corre rischi reali e tangibili.

Il parallelo più frequente è fra mondo contemporaneo ed Europa di inizi del Novecento. Entrambi anarchici nelle relazioni internazionali. Sapendo come andò a finire la seconda – disastrosamente – dove cercare alternative di relativa stabilità e pace mondiali, pur non ideali come, dal nostro punto di vista, l’ordine internazionale liberale e democratico? Haass e Kupchan la trovano nel Congresso di Vienna. Il passato più recente offre un altro modello: l’equilibrio bipolare della Guerra fredda che, non diversamente dal concerto europeo ottocentesco, assicurò quarant’anni senza conflitti diretti fra le due superpotenze e i loro alleati. L’amministrazione di Joe Biden sembra orientata in questa direzione. I presupposti sono tre: rafforzamento delle alleanze, in Atlantico e nella sfera indo-pacifica; riedizione della dottrina del contenimento, applicata questa volta alla Cina; rafforzamento della solidarietà ideologica fra democrazie.

Su Repubblica del 29 marzo, Marta Dassù spiega come la formula bipolare “ridurrebbe la frantumazione tipica del multipolarismo, forzando le altre potenze a schierarsi [per chi ascolti a Bruxelles, Berlino, Parigi – e Roma];…rafforzerebbe le democrazie al loro interno e darebbe una sua forma di stabilità al sistema globale”. L’articolo identifica alcuni punti deboli della proposta di Concerto, per esempio nell’inconsistenza dell’Unione europea come attore di politica estera – stendiamo un velo pietoso sul sofa-gate di Ankara o sulla doccia fredda ricevuta da Josep Borrell a Mosca – e nell’assenza del Regno Unito, membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu. Riconosce però che su una nuova guerra fredda fra un polo democratico americano e uno autoritario cinese interferirebbero molte più variabili indipendenti che non sul confronto tra Stati Uniti e Unione sovietica che metteva di fronte blocchi blindati e, soprattutto, autosufficienti.

Il modello bipolare è sicuramente quello che rispecchia meglio le tendenze in corso. Le alleanze si stanno compattando. Non solo sul versante occidentale. Durante l’inedita partecipazione video di Joe Biden al Consiglio europeo, Sergei Lavrov era a Pechino per una rinnovata dimostrazione di solidarietà euro-asiatica. E, paradossalmente, un equilibrio basato su contenimento, deterrenza e reciproca divisione ideologica è più stabile di un concerto fra partecipanti con agende internazionali troppo diverse per potersi conciliare fra loro. Haass e Kupchan premettono che si dovrebbe “privilegiare lo status quo territoriale”, con un “pregiudizio negativo contro le rivendicazioni di autodeterminazione”. Questo andava benissimo per gli statisti europei del 1815, ma oggi? E quale “status territoriale”? L’annessione della Crimea e l’indipendenza di Taiwan sono situazioni di fatto rispettivamente indigeribili per Washington (e Bruxelles) e per Pechino.

Tuttavia, neppure il bipolarismo della guerra fredda è trapiantabile di sana pianta nel mondo del XXI secolo. La proposta di un concerto fra i Paesi “che contano” – i sei pesi massimi individuati per il nuovo Concerto rappresentano il 70% del Pil e delle spese militari mondiali – può diventare la formula più efficace per affrontare le sfide che rendono imperativa la cooperazione internazionale. Covid docet, i cambiamenti climatici incombono, il terrorismo ha già colpito duramente. Haass e Kupchan mettono impietosamente, e giustamente, a nudo i limiti del sistema Onu ma anche di G7 e G20, le cui energie si risolvono troppo spesso solo in lunghi comunicati. Del resto, la loro idea non è di soppiantare l’esistente sistema multilaterale ma di dargli una guida. Né è da liquidare la loro prospettiva di un quadro in cui Pechino, Washington, Mosca (chi e come per l’Europa è un mistero fino a che Ue e compagnia, Uk compresa, non si attrezzeranno adeguatamente) possano parlarsi e agree to disagree senza venire alle mani, quando scoppia la crisi nel Mar Nero o negli stretti del Pacifico. Nessuno ci pensa? Ma chi aveva pensato al G4-5-7 fino al 1973, quando George Shultz, segretario al Tesoro americano, prese il telefono e invitò a Washington i suoi omologhi francese, tedesco e britannico. La formula emergenziale, in piena crisi petrolifera, ebbe anche un tocco di fortuna: l’anno dopo i primi due invitati, Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt, sarebbero diventati presidente e cancelliere.

Nelle relazioni internazionali ci si affeziona ai precedenti storici, specie di successo. Quand’anche difficilmente ripetibili, diventano miti duri a morire. Basti pensare a quanto spesso viene invocato – senza esito – il Piano Marshall. Né il concerto europeo del 1815, né il long telegram di George Kennan che prefigurò la dottrina del contenimento e la guerra fredda, sono trasferibili automaticamente nel disordine globalizzato del XXI secolo. Ma c’è bisogno di entrambi. Basta azzeccare il dosaggio. Quando si è persa la bussola i precedenti itinerari aiutano a ritrovarla.


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