La forza propulsiva di Bergoglio non si è esaurita, e anche se il sinodo non è ancora realtà, è una prospettiva epocale a portata di mano. La riflessione di Riccardo Cristiano sulla necessità di un sinodo, atteso dal 2015
Dopo una lunga serie di incontri tra i vertici della Cei e papa Francesco, la prospettiva di un sinodo italiano sembra finalmente prendere corpo, anche se molto va ancora chiarito. Di certo non è stato facile prevalere sulle resistenze di larga parte dell’episcopato italiano a un coinvolgimento dei fedeli in ciò che ritengono loro esclusiva.
“Gutta cavat lapidem”, cioè la pietra perfora la roccia.
L’insistenza di papa Francesco è stata premiata e i tempi di diffusione dei documenti preparatori saranno noti a breve e l’assemblea dei vescovi, ormai imminente, chiarirà i dettagli che oggi appaiono ancora non stabiliti nel meccanismo sinodale “diffuso sul territorio”. Certo ci saranno elementi di vita interna ed esterna alla Chiesa. Comunque questa svolta sinodale era attesa dal 2015, quando Bergoglio disse intervenendo al V Convegno ecclesiale: “Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente. Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”.
Per capire cosa voglia dire per la Chiesa italiana e per l’Italia tutta questa prospettiva sinodale occorre rileggere quanto scrisse l’ex direttore de La Civiltà Cattolica, invocando di fare presto. Sorge partiva dall’esempio, illuminante ma abbandonato, del Primo Convegno ecclesiale. “Si deve constatare che nei successivi quattro Convegni ecclesiali i laici non svolsero più quel ruolo di corresponsabilità che tanto proficuamente avevano esercitato durante il Convegno del 1976 applicando lo stile del «con-venire». Da Loreto a Firenze, i Convegni che seguirono furono visti piuttosto come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – «occupando il posto che gli compete per istituzione divina» –, il programma pastorale per il successivo decennio, elaborato dalla Cei”.
Dunque la prospettiva teologica cara Francesco era stata intravista nel Primo Convegno ecclesiale, ma poi abbandonata. Una Chiesa che impara a camminare insieme cosa cambierebbe, oggi? È stato sempre padre Sorge a fornire una preziosa risposta: “Oggi – si disse nel 1976 – non bastano più le dichiarazioni e i documenti ufficiali, né la riaffermazione di princìpi dottrinali generici e astratti; né basta più una pastorale difensiva, tesa soprattutto a garantire la sicurezza e la tranquillità della Chiesa, lasciando ad «altri» la pena e la responsabilità di immischiarsi nei problemi del Paese per risolverli. Come cittadini – ribadì con forza il Convegno – siamo tutti responsabili. Era necessario, quindi, affrontare anche il problema di una nuova forma di presenza dei cattolici nella vita sociale e politica. Certo – si ripeté più volte – la Chiesa in quanto tale non compie opzioni di natura economica o politica, tuttavia partecipa in prima persona alla promozione umana, che è parte integrante ed essenziale dell’evangelizzazione. E lo fa sia giudicando e orientando le opzioni temporali alla luce della parola di Dio e del magistero (con la sua «dottrina sociale»), sia attraverso l’impegno politico diretto, laico e pluralistico, dei cattolici, non isolati, ma insieme con tutti gli altri cittadini di buona volontà”.
Dunque la prima tentazione da sconfiggere è illudersi di potersi salvare da soli, con le proprie strutture, legalizzando e bucraticizzando la Chiesa. La seconda tentazione da sconfiggere è lo spiritualismo intimistico. Dunque la vera sfida, quella che riguarda tutta Italia, è questa: “La difficile sfida – richiamata dal Papa anche a Firenze – meritevole di essere affrontata in un autorevole dibattito sinodale riguarda le implicazioni etiche e comportamentali dei fedeli, all’interno della crisi spirituale e culturale senza precedenti in cui si dibatte l’Italia. La Chiesa – ha detto papa Francesco – sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini”.
Sorge scriveva prima della pandemia, è chiaro che oggi questa urgenza è ancora più evidente e decisiva per tutti. Che Chiesa servirebbe? Un’intervista di padre Antonio Spadaro a Giuseppe De Rita fissa i termini di cosa potrebbe essere domani ricordandoci quello straordinario momento del Primo Convegno, il 1976: “Quando mi misi al lavoro per la preparazione del Convegno, dentro l’ambiguità difficile di quella società, vedevo serpeggiare nella Chiesa italiana un’inarrestabile tendenza al masochismo, che assumeva prevalentemente due connotazioni: la prima, quella di una Chiesa che andava al macello, sbagliando più o meno coscientemente tutte le sortite pubbliche con una baldanza di atteggiamento che definivo «fanfaniana» e che contrastava con la problematicità un po’ angosciata che filtrava dalla Santa Sede. La seconda forma di masochismo erano le catacombe minoritarie delle riaffermazioni di principio, delle testimonianze, dei richiami teologici, delle obbedienze, delle comunioni ecclesiali con i superiori, con atteggiamenti di fanatismo di difesa, di quadrato, senza grinta di conquista e di futuro, senza speranza, potrei dire. Ecco, questo mi sembra fosse il punto emotivamente più evidente: la mancanza quasi assoluta del senso del futuro e della speranza: mancanza stravolgente per la Chiesa che, se vive di storia e tradizione, ancor più vive, o dovrebbe vivere, di futuro e di speranza”.
Non serve per ricostruire l’Italia un bacino di speranza, di sguardo al futuro e non di arroccamento, di difesa, di chiusura? Dove altro cercare un rinnovamento etico oggi indispensabile?
Tornare a quello spirito è necessario, oggi, e la Chiesa è la sola che può spingere l’intero Paese. La lezione di Giuseppe De Rita ci spiega anche perché dopo il convegno del 76 non si ebbe il coraggio di procedere: “La dinamica che portò al declino di quella mobilitazione collettiva – enorme e mai più ripetuta – fu complessa. Non c’è dubbio che chi aveva curato la gestione dell’intero processo continuò a insistere nel tenere calda l’atmosfera di condivisione delle comunità locali. Così come non c’è dubbio che in molte diocesi i vescovi titolari organizzarono progetti biennali di approfondimento delle tesi del Convegno e di progressiva analisi delle realtà socioeconomiche dei vari territori. Eppure la spinta partecipativa si andò via via spegnendo. Credo che avvenne essenzialmente perché i vertici della Cei si ritrovarono senza molto ardore, senza molta benzina nel motore: mons. Bartoletti, che era stato il vero artefice del Convegno, era morto; i suoi più diretti collaboratori o erano andati altrove o si erano adattati all’inevitabile riflusso nella quotidianità; il papato di Paolo VI era vicino al compimento e non aveva più la forza propulsiva che aveva «protetto» alle spalle la spinta di Bartoletti; e poi arrivò il 1978, con lo sconvolgimento, anche ecclesiale, provocato dalla vicenda Moro. Così i pensieri di tutti furono rivolti altrove, nessuno si azzardava a riprendere il filo del lungo cammino progettato nel Convegno del 1976. Ma soprattutto avvenne l’arrivo di Ruini, prima come segretario e poi come presidente della Cei…”.
Evidentemente la forza propulsiva di papa di Francesco non si è esaurita, anche se il sinodo non è ancora realtà, ma una prospettiva epocale a portata di mano sì.