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Ci può essere solidarietà nazionale senza un sinodo italiano?

Senza un sinodo italiano la nostra società difficilmente potrà trovare un altro punto per prediligere l’avvio di un processo rispetto all’occupazione di spazi identitari. Pena il rischio di affogare. Tutto sommato l’Italia ha bisogno di solidarietà, davvero nazionale, e senza un sinodo difficilmente la troverà. La riflessione di Riccardo Cristiano sul volume “Andreotti, la Chiesa e la solidarietà nazionale”, di Augusto D’Angelo, pubblicato da Studium

È possibile l’unità nazionale? E che ruolo può avervi la Chiesa? Il tema è stato un po’ trascurato, ma l’esecutivo Draghi impone una riflessione al riguardo e il bel libro del professor Augusto D’Angelo pubblicato da Studium su “Andreotti, la Chiesa e la solidarietà nazionale” ci aiuta a porci domande sull’oggi alla luce della ricostruzione della storia di ieri. È soprattutto l’idea di un sinodo italiano lanciata dal papa, nel silenzio di gran parte dell’episcopato italiano, evidentemente recalcitrante a seguire Francesco, a interrogarci su cosa potrebbe significare questa prospettiva per l’Italia.

Il volume di cui parliamo ovviamente non tratta del sinodo, ma per spiegarci la prospettiva cattolica davanti a quella che fu solidarietà nazionale parte dal grande convegno sui mali di Roma, vera pietra miliare del cammino della Chiesa post-conciliare, impegnata in questo nuovo cammino in anni turbolenti. Il libro ovviamente non parla neanche dell’esecutivo Draghi, ma le turbolenze politiche che ne accompagnano il cammino pongono il problema della prospettiva di oggi e accostarci a quanto accadde ieri può servire a capire quanto accade oggi.

In tanti racconti di storie ecclesiali sconosciute ai più o dimenticate da tanti il volume aiuta da subito a impostare la questione in termini storici e poi a interrogarci sulla realtà e le problematiche odierne.

Mi sembra illuminante partire da questo racconto di D’Angelo relativo agli anni della contestazione, nei quali la Chiesa post-conciliare si immergeva con rinnovato spirito evangelico: “In parte del clero della diocesi l’ansia di giustizia, dopo essersi fatta compagna dei più marginali, si trasformò in denuncia. È il caso della lettera firmata il 23 febbraio 1972 da tredici preti romani, che prendeva le mosse dal presunto tradimento di una promessa fatta dall’amministrazione di Roma e dal ministero dei Lavori Pubblici di dare una casa ai baraccati romani entro il natale 1971. La lettera dei sacerdoti impegnati a vario titolo nelle periferie romane intendeva “proporre ai cristiani di Roma un invito alla conversione concreta” nella Quaresima che iniziava, sottoponendo ai fedeli un documento su “una delle piaghe della città di Roma: le baracche”. […] Il documento metteva sotto accusa la Democrazia Cristiana che aveva amministrato Roma ininterrottamente dal 1947, ma non risparmiava la Chiesa. Gli estensori accusavano le congregazioni religiose di aver speculato sul territorio romano dal secondo dopoguerra, denunciando come all’inizio degli anni Settanta esse fossero proprietarie di 51 milioni di metri quadri dei quali solo il 30% circa erano compresi nell’ambito del piano regolatore del 1931, mentre oltre il 70% era stato utilizzato a fini edilizi pur essendone al di fuori.

“Il comune di Roma – aggiungevano i sacerdoti – in data 1957, possedeva 4.000.000 di mq di terreno. […] Si accusava, poi, il Vaticano di essere direttamente o indirettamente coinvolto in alcune società immobiliari, prestando il fianco ad accuse di spregiudicata speculazione. e si chiedeva: ‘È questa la chiesa che presiede alla ‘carità universale’? La lettera ebbe un’accoglienza fredda da parte delle autorità e di larga parte del mondo cattolico romano. Poco più di due mesi dopo si sarebbero tenute le elezioni politiche e l’apertura di un dibattito su quei temi avrebbe rappresentato un pericolo, avrebbe potuto avvantaggiare le forze della sinistra. Quindi si reagì da principio col silenzio e con riferimenti indiretti alla inopportunità dell’iniziativa”.

Se ci spostiamo nell’Italia o nella Roma odierna la contestazione appare un fatto “di destra”. La nuova protesta sociale appare in mano a simbologie opposte a quelle di ieri, ma cosa si scorge dietro il malessere? Se la sinistra non parla più il linguaggio del disagio ciò non toglie che il disagio, la solitudine, la crisi, tenti di parlare anche con lei. E la Chiesa? In questo tempo pandemico si parla spesso di isolamento, di chiusura dentro casa. E chi una casa non ce l’ha? Roma non è più la “città sacra” da tempo, ma i mali di Roma non parlano dei mali italiani davanti a una realtà che abbandona, o aiuta poco se non addirittura rimuove? Così leggere del convegno sui mali di Roma fa pensare che il sinodo sarebbe urgente, addirittura indispensabile. Ma indispensabile a cosa? Forse a ricostruire il nostro ethos comune mentre si parla di “guerra tra poveri”? Possono vaccinarsi gli irregolari o no? Cosa succede, come si vive nelle borgate?

D’Angelo ricostruisce benissimo come quella lettera fu ritenuta un errore dai vertici della Chiesa romana. Ma innescò un processo. Per quanto il nuovo “cardinal vicario” fosse presentato come legato alla conservazione, le cose presero presto un’altra piega. “L’inciampo più consistente nel rapporto fu sicuramente quello del Convegno del febbraio 1974 su ‘La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella diocesi di Roma’ organizzato dal vicario con la stretta collaborazione di don Luigi di Liegro, prete molto attivo nel campo sociale. Sin dal suo annuncio, avvenuto con una conferenza stampa il 25 ottobre 1973, l’assise, presto ribattezzata ‘Convegno sui mali di Roma’, provocò sommovimenti profondi anche in campo politico. […] Più d’uno ha ricordato che in quella conferenza stampa di presentazione il cardinal Poletti, leggendo le quattordici pagine che aveva preparato con la collaborazione di Di Liegro, in maniera pacata, ma ferma, aveva detto: ‘Ha la Chiesa qualcosa da dire alla società di oggi? Ha da dire che il mondo attuale è inaccettabile, e che l’uomo ha la vocazione di trasformarlo e di ordinare l’orientamento del suo divenire personale e collettivo’. Oltre a denunciare il ‘dilagare dell’egoismo’ e l’esigenza di ‘un rinnovamento interiore’, il vicario di Roma presentò dati significativi tesi a dimostrare la problematicità della vita dei romani. Si trattava di una serie di record negativi che era impossibile non chiamassero in causa la gestione politico-amministrativa. La capitale presentava un tasso di mortalità infantile elevatissimo (il 26×1000); il record nel numero di baracche (quasi 8000 che il cardinale pudicamente definiva ‘abitazioni improprie’). Roma, inoltre, aveva in Italia il più alto numero di abitazioni sfitte (si parlava di almeno 64mila case vuote)”.

La ricostruzione di ethos nazionale non parte da qui anche oggi? Nella crisi della politica e di quella che il premier Draghi ha chiamato “coscienza individuale” davanti ai “furbetti del vaccino” da dove si potrebbe partire o ripartire se non dal sinodo della Chiesa italiana? Cos’altro c’è?

È chiaro che al tempo tutti sapessero che il Convegno poteva essere strumentalizzato politicamente dal PCI. La Chiesa spalleggiava “il sorpasso?” Era il punto del tempo, il sorpasso, e non certo quello del celebre film, ma quello del Pci. È molto significativo che una grande figura del cattolicesimo di allora, Pietro Scoppola, esprimesse perfettamente lo spirito dell’idea sinodale nell’idea che portò a dar vita al convegno: “Pietro Scoppola – che nel convegno del 1974 presiedette l’assemblea della zona est di Roma – sostenne, rievocando l’evento al momento della scomparsa del cardinale: ‘Non è che Poletti avesse in testa un disegno, un progetto da realizzare, che volesse imporre qualcosa. Voleva dare alla città la possibilità di esprimersi’. A quell’iniziativa il cardinale era stato mosso, con l’assenso del papa, dalla preoccupazione per una Roma che si avvertiva ampiamente scristianizzata. La convocazione era espressione di un’ansia pastorale, rigenerata dalle prospettive aperte dal Concilio Vaticano II, capace di inaugurare stili ed esperienze inimmaginabili solo qualche anno prima”.

Se qui abbiamo un’idea dell’inizio di un percorso che avrebbe portato alla solidarietà nazionale è molto importante capire politicamente cosa significasse quel convegno: “È difficilmente contestabile che il convegno sui mali di Roma, al di là delle intenzioni degli organizzatori, avesse assunto sin dall’immediato un peso di carattere politico. L’iniziativa, anche per questo, aveva raccolto perplessità in Segreteria di Stato e nella Curia romana. E se, in prospettiva storica aveva contribuito ad una progressiva apertura delle istituzioni verso la società civile, scavò un solco profondo tra Andreotti e Poletti. Fu lo stesso vicario di Roma a segnalarlo nelle sue memorie, ammettendo: […] la vera causa della costante freddezza dell’onorevole Andreotti nei miei confronti fu il Convegno del Febbraio 74. […] gli apparve come una iniziativa facilona, populista, disgregatrice di precisi valori “politici”. Infatti non tralasciò mai, né in privato né in pubblico, di disapprovarlo come un atto sconsiderato”.

Ci siamo soffermati su questa parte del volume perché è quella che pone i termini di una questione che avrebbe poi visto proprio in Andreotti l’uomo della solidarietà nazionale. Entrato da destra, ne usciva dall’altra parte. L’esperimento nel quale si trovò coinvolto aveva un fine: rendere tutta la sinistra “compatibile”. C’è riuscita la solidarietà nazionale? Ha contribuito a superare un “divide” che impauriva e che ha impaurito a lungo? Le discussioni ovviamente da ecclesiale diventano politiche. La sinistra riformista si può essere sentita danneggiata dalla trasformazione dell’altra sinistra. Tutto questo afferisce all’altro versante della storia dell’unità nazionale: il “divide” oggi potrebbe essere visto in una “europeizzazione” della destra che potrebbe danneggiare l’altra destra, quella che già lo è, europeista.

Ma resta il fatto che il motore del cambiamento culturale, anche a sinistra, è partito dal Convegno sui mali di Roma. La ricostruzione della nascita del governo delle astensioni, delle paure e dei dubbi, ma anche dello scenario economico che ci si trovò a fronteggiare, letta oggi colpisce. Bisognava salvare economicamente il Paese, ma sul tappeto, guarda caso, c’erano delicatissime questioni di etica che dividevano, come l’aborto.

La storia politica e i riflessi ecclesiali danno un quadro molto importante da leggere oggi. Ma il punto sul ruolo sociale e culturale del cattolicesimo italiano è probabilmente quello che aiuta maggiormente a capire cosa potrebbe fare ripartire oggi, l’Italia. L’Andreotti così intriso di vecchia destra cattolica lo troviamo immerso in un dibattito con ambienti cattolici che lo contestano sull’aborto. A uno prete arrabbiato Andreotti rispose così: ‘Reverendo padre, non vedo la fondatezza del suo rilievo. La Commissione medica – composta in modo ineccepibile sotto tutti i riguardi – ha dichiarato che il grave rischio per le madri esiste. L’esperienza estera (Vietnam) conferma. di conseguenza per la legge italiana – vedi Corte Costituzionale – e per quella morale se la donna lo desidera l’interruzione della maternità è dovuta. La polemica sulla “eugenetica” non rientra in queste ipotesi’. C’è molto altro, ovviamente, come l’elettrice democristiana che scrisse “legare la vita della creatura ai fattori psicologici, che sono stirabili come la gomma elastica, significa introdurre in pratica l’aborto libero”.

Anche in questi casi, come in altri rinvenibili tra le sue carte, Andreotti – con la sua segreteria privata – non tralasciò di rispondere con gli stessi argomenti espressi nella lettera a don Bressan, a testimonianza di un tentativo di non lasciar cadere alcuna interlocuzione, di fugare perplessità, di recuperare spazi di consenso di settori preoccupati della nuova situazione politica, dell’accresciuto peso del Pci e delle sue conseguenze dal punto di vista del mantenimento dei principi. “L’interesse di Andreotti, in quella fase, era naturalmente rivolto a varare un esperimento governativo che non poteva rischiare di affondare, appena uscito dal porto, su di una mina vagante che pur sollevando un problema legittimo, rischiava di essere utilizzata per una nuova campagna politico-identitaria alla quale gran parte del mondo ecclesiastico, scottata dall’esito del referendum del 1974, non aveva alcuna intenzione di aderire. E da questo punto di vista la stampa cattolica più istituzionale, come parte del mondo religioso che guardava ad Andreotti come ad un solido interlocutore, non fece mancare il suo appoggio, assieme a qualche rilievo e a vari suggerimenti”.

Le spine e le sfide di allora ci aiutano a scorgere le spine e le sfide di oggi. I pochi esempi citati ci aiutano però a capire che senza un sinodo italiano la nostra società difficilmente potrà trovare un altro punto per prediligere l’avvio di un processo rispetto all’occupazione di spazi identitari. Pena il rischio di affogare. Tutto sommato l’Italia ha bisogno di solidarietà, davvero nazionale, e senza un sinodo difficilmente la troverà.

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