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Dalla stazione spaziale alla Luna, dove va la Russia? Risponde Spagnulo

Un mese fa, Russia e Cina hanno firmato un memorandum per cooperare sulla Luna. Pochi giorni fa Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, ha dichiarato di interrompere nel 2025 la cooperazione con la Nasa per la gestione della Stazione spaziale internazionale. Mosca vorrebbe un suo avamposto in orbita terrestre. È la fine dell’era della grande cooperazione? La risposta di Marcello Spagnulo, ingegnere ed esperto aerospaziale

La geopolitica delle alleanze terrestri influenza anche quelle nello Spazio. In un complesso ordine mondiale che si vorrebbe stabile e definito, ma che invece è mutevole come non mai in un secolo dove la pervasività tecnologica aumenta la competizione tra Stati, il settore spaziale è una cartina di tornasole ad alto impatto mediatico per analizzare le problematiche geopolitiche del nostro pianeta.

La dichiarazione di Dimitry Rogozin, capo di Roscomos, ha lasciato interdetti solo coloro che leggono l’esplorazione dello spazio con lenti disgiunte dall’analisi politica, pensando che l’umanità sia destinata a viaggiare nel cosmo per innato ed esclusivo anelito di conoscenza e curiosità scientifica. Così come non sono una novità le tensioni spaziali tra Usa e Russia: già la crisi in Ucraina nel 2014, per esempio, scosse la tenuta della loro partnership. L’allora primo ministro russo, reagendo alle ipotesi di sanzioni avanzate da Washington per la presunta ingerenza di Mosca su Kiev, minacciò di bloccare la fornitura dei motori RD-180 della società russa NPO-Energomash a Lockheed Martin che li impiegava per equipaggiare i razzi Atlas con cui lanciava i satelliti del Pentagono.

In quel frangente, il generale William Shelton della US AIR Force Space Command, dichiarò al Senato che un eventuale blocco delle forniture russe avrebbe comportato ritardi nei lanci dei satelliti militari con gravi implicazioni per la sicurezza nazionale, e ciò bastò al Congresso per stanziare subito i fondi necessari a produrre in America un motore nuovo di zecca con cui sostituire quello russo. Di episodi come questo raramente il grande pubblico viene a conoscenza, mentre oggi il tema della Stazione spaziale assume una rilevanza mediatica anche perché la decisione dei russi di ritirarsi dalla potrebbe mettere in pericolo pure la cooperazione con l’Agenzia spaziale europea (Esa) che, insieme a quella giapponese e canadese, ha fornito risorse, infrastrutture e astronauti per equipaggiarla.

Nel 2021, l’Esa spenderà 671 milioni di euro per l’esplorazione umana e robotica, e gran parte di questi fondi saranno impiegati proprio per la Iss. Il punto è che le negoziazioni tra gli Stati cooperanti per deciderne il prosieguo dopo il 2024 sono sul tavolo da mesi, ma pochi progressi sono stati concretamente ottenuti. E sarebbe erroneo attribuire solo alla Russia la responsabilità di queste difficoltà. Già due anni prima dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, l’allora direttore dei Voli umani della Nasa, William Gerstenmaier, aveva dichiarato in un’intervista che l’agenzia americana “prevedeva di uscire dalla Iss il più rapidamente possibile, ma non puntando a un ridimensionamento del volo spaziale umano, ma piuttosto riprendendo il percorso dell’umanità sulla Luna e oltre”.

Quindi dato che negli ambienti governativi statunitensi si ragionava già da tempo sul superamento della Iss, la strategia dell’amministrazione Trump si concentrò sul programma lunare Artemis – e sulla cooperazione con le aziende private – cosa che ai più sembrò una presa di posizione estemporanea tipica di un personaggio fuori dagli schemi. Mentre, più probabilmente era una logica conseguenza del mutato contesto geopolitico.

Non pare infatti che l’attuale amministrazione Usa stia stravolgendo questa strategia spaziale, anzi. Il fatto, per esempio, che la Cina possa avere entro pochi anni una sua stazione orbitante intorno alla Terra porrebbe gli astronauti di Pechino sullo stesso piano tattico e politico, e questa è una situazione difficilmente accettabile da Washington.

Non bisogna poi neanche trascurare l’aspetto finanziario. La Nasa spende per la Is più o meno un quarto del proprio bilancio, e per poter condurre nuove iniziative, come Artemis e il Lunar Gateway, questi fondi potrebbero essere essenziali.

Dal punto di vista politico, l’annunciata decisione della Russia di lasciare la Iss – per ora si tratta di un annuncio, è bene dirlo, anche se Rogozin ha dichiarato che formalizzerà a breve la decisione ai partner – coincide con un decennio di inasprimento delle relazioni con l’Occidente. E recentemente anche con manovre quasi-ostili in orbita tra veicoli spaziali di Usa, Russia e Cina. Nei giorni scorsi, Washington ha imposto nuove sanzioni contro Mosca per presunte ingerenze elettorali e attacchi informatici, mentre vari Stati europei hanno condannato il governo russo per aver imprigionato l’attivista Alexei Navalny. E le crescenti attività militari russe al confine ucraino hanno reso la situazione ancora più tesa. Non è sfuggita quindi a Vladimir Putin l’occasione di lanciare un forte messaggio nel corso dei festeggiamenti del 60esimo anniversario dello storico volo spaziale di Jurij Gagarin, dichiarando che “bisogna mantenere adeguatamente lo status della Russia quale una delle principali potenze spaziali del mondo”. E subito dopo Rogozin ha dichiarato di stare aspettando solo un cenno del presidente per iniziare a lavorare su una propria stazione orbitante da lanciare entro il 2030.

Il ruolo esplicito nello Spazio sta trovando quindi evidente forma mediatica e politica nelle linee strategiche delle superpotenze globali, lasciando presagire un energico riposizionamento complessivo in cui anche l’esplorazione umana sarà reimpostata secondo le evolute esigenze geopolitiche terrestri. E il paradigma più evidente di questo cambiamento potrebbe essere proprio la Iss che, pensata dagli Stati uniti negli anni Novanta come un elemento di superiorità tecnologica attuato tramite una cooperazione internazionale, sarebbe in obsolescenza non solo dal punto di vista tecnico (dal 2019 è presente sul modulo russo della Iss una fuga d’aria di 0,6 libbre al giorno, quintuplicatasi nel 2020) quanto da quello politico.

Si sta prospettando quindi un nuovo quadro che costituirà l’essenza dell’esplorazione umana dello Spazio per i prossimi dieci/vent’anni e che sta assumendo esplicite forme di confronto tattico tra le tre superpotenze in cui la posta in gioco non è solo militare, ma anche economica. Infatti, il connubio produttivo tra Pentagono, Nasa e imprenditoria privata sta stravolgendo (sotto l’accattivante formula della “New Space Economy”) tutti i paradigmi sin qui costituiti.

Per gli Stati europei la sfida va quindi oltre la Iss e la, pur importante, valorizzazione economica e produttiva della sua eredità (si pensi che l’Esa ha speso oltre 8 miliardi di euro per la partecipazione alla stazione) ma traguarda anche un ruolo geopolitico al pari di quanto avviene per l’industria dell’intelligenza artificiale, del 5G o della farmaceutica, solo per citare alcuni settori strategici.

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