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La Superlega tra calcio e miliardi. Ma è colpa degli americani?

L’annuncio della “European Super League” ha scosso il mondo del calcio (e non solo). E se aprire quotidiani e telegiornali con articoli indignati fosse solo l’ennesima conferma dell’antico principio di “panem et circenses” o un uso strumentale dello sport come arma di distrazione di massa? E se l’aspra reazione di leghe nazionali, Uefa e Fifa non fosse in larga parte strumentale, legata soprattutto al desiderio di difendere l’attuale assetto di potere?

Nel 2012, i ministri dei trasporti europei impiegarono cinque giorni per tenere una conference call su come affrontare affrontare il blocco dei voli causato dall’eruzione di un vulcano in Islanda. Nel 2021, al vice presidente della Commissione europea Margaritis Schinas, solo poche ore per twittare, contro il progetto di Super Lega calcistica lontano da “universalità, inclusione e diversità, che sono i valori chiave dello sport europeo e del nostro modo di vivere europeo”. Il calcio, insomma, sembra smentire il “qual è il numero di telefono dell’Europa’” con cui Henry Kissinger bollò l’inefficienza delle istituzioni comunitarie.

Schinas è in buona compagnia. L’annuncio della European Super League (Esl), curiosamente dato da alcune delle società più importanti del calcio europeo di domenica, con tutti i campionati in corso, ha sconvolto un po’ tutti. Per la prima volta da mesi, i telegiornali italiani non hanno aperto con il consueto bollettino Covid. Persino il New York Times, che si pubblica in uno dei pochi Paesi in cui il calcio non è lo sport principale, ha messo la notizia in prima pagina. Per non parlare dei social, dove pochi hanno saputo resistere dall’esprimere opinioni quasi sempre negative sulla proposta di una sorta di Champions League alternativa su venti squadre, ispirata al modello degli sport professionisti Usa. Semplificando: più spettacolo, meno sport.

Come Schinas, gran parte dei commentatori ha reagito con disprezzo all’idea, tratteggiando la contrapposizione tra il calcio “dei ricchi” (grazie al sostegno della banca d’affari JP Morgan, ciascuno dei partecipanti riceverebbe un minimo garantito annuo di 300 milioni di euro) e quello “di tutti”.

IL MODELLO AMERICANO

La stabilità della composizione dei campionati, con annessa stabilità finanziaria e capacità di sostenere gli elevati investimenti per restare competitivi ai massimi livelli, è uno dei punti che la futura Superlega riprende dagli Usa. La cosa non è né nuova né sorprendente. “Sono vent’anni che i super club si organizzano per questo: basti pensare alla European club association (Eca), della quale Andrea Agnelli è stato presidente fino a pochi giorni fa”, sottolinea Peter Alegi, professore di storia dell’Africa e dello sport presso la Michigan State University. “Ma la trasformazione iniziò ancora prima, perché l’Eca nasceva dal G-14 nato dai cambiamenti degli anni Novanta, dalla Premier League alla Champions, senza dimenticare la sentenza Bosman che svincolò i giocatori dalle squadre”.

Tra i primi a guardare al modello americano per la gestione dello sport professionistico fu Silvio Berlusconi. Senza dimenticare, aggiunge Alegi, che oggi “Manchester United, Liverpool e Arsenal sono già di proprietà degli americani Glazer, Henry e Kroenke, come pure il Milan è del fondo Elliott”. Per restare alle squadre italiane, si può aggiungere la Roma, per ora fuori dal progetto Esl ma comunque passata sotto proprietà americana già con James Pallotta. Il progetto del nuovo stadio e la serie Sky su Francesco Totti sono indicative della politica di sfruttamento del marchio sportivo al di fuori dei binari tradizionali. L’elenco potrebbe continuare con la Fiorentina acquistata da Rocco Commisso e il Parma di Kyle Krause, ma anche con il Bologna acquistato dal canadese Joey Saputo, comunque vicino al modello americano.

Il termine “società” descrive quindi il modello attuale in modo più accurato di quello di “club” spesso utilizzato in inglese. Reagire all’annuncio Esl come se il calcio fosse ancora uno sport dilettantistico o i presidenti i “ricchi scemi” disposti a spendere cifre enormi per passione o per ritorni di sola immagine è un misto di ingenuità, malafede e scarsa conoscenza della storia del calcio.

ANCHE I RICCHI PIANGONO

Che schierare i calciatori più importanti del momento e vincere più trofei si traduca in società ricche è più un assunto che un fatto. “Il calcio ha dei buchi economici paurosi”, sottolinea Alegi. “La Juventus ha chiuso l’esercizio 2019-2020 con un rosso di 115 milioni e il Barcellona ha debiti per 1,5 miliardi di euro”. La quotazione in borsa di alcune squadre non ha risolto il problema, così come hanno lasciato il tempo che trovano le norme che limitano la spesa delle singole squadre.

È questa necessità di trovare soldi che divide le grandi squadre da quelle minori, quando addirittura non esclude interi Paesi dalla possibilità di schierare formazioni di primo piano. Per la Uefa, la soluzione passa attraverso la creazione di nuove competizioni e l’aumento del numero di squadre partecipanti (e dunque di partite), per esempio con la European Nations League e la Europa Confederation League. “La Uefa ha tentato l’Eca offrendo slots garantiti e qualche soldo in più, ma evidentemente non ha funzionato”, ricorda Alegi. “La stessa Fifa ha proposto una World Club Cup e un mondiale a 48 squadre”.

Il passaggio di grandi squadre come il Paris Saint Germain e l’Inter nelle mani di proprietari stranieri è un altro segnale della crisi del grande calcio. Chi difende il modello attuale, insomma, dovrebbe spiegare come pensi di renderlo sostenibile o come comportarsi di fronte alla prospettiva di un crac.

IL BUE CHE DICE CORNUTO ALL’ASINO

Dividere il mondo tra grandi squadre assetate di danaro e club minori appassionati ricorda, con le dovute differenze, lo canzone fascista della guerra del “sangue contro l’oro”. Ma è davvero così? Sotto il profilo reputazionale, le istituzioni del calcio internazionale non sono esattamente irreprensibili. Basti ricordare la lunga serie di scandali Fifa scaturita dalle ricerche del giornalista inglese Andrew Jennings e culminato nelle dimissioni di Sepp Blatter dal vertice dell’organizzazione e da decine di rinvii a giudizio da parte del dipartimento della Giustizia americano per corruzione internazionale.

L’aspra reazione di leghe nazionali, Uefa e Fifa sembra quindi in larga parte strumentale, legata soprattutto al desiderio di difendere l’attuale assetto di potere. La stessa minaccia di escludere i club “ribelli” e i loro giocatori dalle competizioni internazionali sembra un’arma a doppio taglio. “Senza i grandi nomi la Champions League andrà dall’essere il Super Bowl europeo al campionato di high school del Connecticut”, dice Alegi. Al di là delle cause miliardarie che i due contendenti si stanno minacciando, la situazione è analoga a quella che si avrebbe in Formula 1 se dovessero ritirarsi la Ferrari, Mercedes, McLaren e Red Bull.

COME FINIRÀ?

L’uscita allo scoperto dei grandi club non garantisce che il progetto della Superlega riesca ad andare in porto. Se molte ragioni degli scissionisti sono chiare, la mancata adesione di francesi e tedeschi indica come la strada sia altrettanto irta di ostacoli.

Può darsi che alla fine si trovi un compromesso per ricondurre la fuga all’interno del sistema tradizionale, così come che lo scontro si inasprisca fino alle conseguenze più estreme. L’intervento di esponenti politici di primo piano, come il premier britannico Boris Johnson e il presidente francese Emmanuel Macron, non lascia presagire nulla di buono. Aggiungere tensioni nazionalistiche non aiuterà a riconoscere che gli attuali problemi sono iniziati ben prima che gli americani scoprissero il calcio. “Le radici del boom economico e della iper-commercializzazione si possono far risalire a João Havelange, sotto la cui presidenza la Fifa iniziò a vendere i diritti televisivi e pubblicitari dei propri eventi al maggior offerente”, sottolinea Alegi. La distribuzione di quei profitti è andata solo in minima parte a vantaggio delle squadre e dello sport.

“Il calcio sembra esistere in un mondo parallelo, cosa messa ancora più in risalto sotto Covid, con le minacce della Uefa di cambiare città ospitanti se non aprono gli stadi per gli europei”, conclude Alegi. La rivolta dei club, insomma, è solo la punta dell’iceberg contro il quale il calcio sembra voler dirigere con ostinazione degna del Titanic.

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