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Meno emergenza, più futuro. Il salto che manca secondo Treu

Intervista al giuslavorista, ex ministro e presidente del Cnel. “Anche nell’ultimo decreto per le imprese vedo troppa emergenza e poco futuro”. Alto debito e disagio si combattono solo con la crescita. Sui licenziamenti serve una super-Naspi e formazione nelle aziende. Alitalia? Non esageriamo, anche i francesi hanno messo miliardi in Air France

Va bene salire su una scialuppa e salvarsi, ma poi serve una rotta. Per sapere dove si va. All’indomani dell’approvazione del Documento di economia e finanza e dello scostamento di deficit da 40 miliardi (il quinto, a fronte di 9 decreti di emergenza da inizio pandemia) che vale il decreto Imprese, non è così fuori luogo provare a pensare che sì, le misure di emergenza vanno bene. Ma forse è tempo di guardare al di là del proprio naso. Tiziano Treu, giuslavorista di lungo corso, più volte ministro e oggi presidente del Cnel, la vede proprio così. Bisogna pensare al dopo e uscire dalla logica dell’emergenza. Con una parola d’ordine: crescita.

Treu, il governo sta per approvare un nuovo decreto a base di aiuti e indennizzi alle imprese. L’emergenza non è finita, per carità. Però non possiamo sempre pensare con lo stesso metro di misura. O no? 

Certo, non solo bisogna pensare al dopo, ma occorre far partire i progetti e gli investimenti già maturi e senza aspettare il Recovery Plan. Nei decreti di emergenza bisognerebbe avere dei link con il futuro, che però ora non ci sono. Ormai è un anno e passa che stiamo in questa situazione, certe cose bisognava farle prima, senza aspettare, basti pensare ai bisogni delle famiglie. Dovevamo dare segnali per il futuro.

Abbiamo peccato di scarsa lungimiranza. Come al solito…

Sì, ma non è solo un problema italiano. Questa mancanza di lungimiranza è anche figlia dell’instabilità politica. Abbiamo governi che durano un anno e mezzo al massimo, purtroppo l’instabilità politica è peggio di quella economica. Ora servirebbero provvedimenti emergenziali in una prospettiva di superamento dell’emergenza e fornire contributi al raggiungimento di obiettivi più strutturali quali la ripresa delle attività in totale sicurezza.

Spesso il premier Draghi ha parlato della necessità di dare speranza alle persone. Di riaprire o cominciare a farlo, insomma…

Ha ragione, anche se bisogna sempre combinare la speranza con la sicurezza. Ma purtroppo siamo stati vittime di una regia frammentata, con le Regioni che si comportavano in modo diverso tra loro, senza una guida forte. Lo abbiamo visto sui vaccini, anche. Avessimo fatto come gli inglesi, non saremmo in questa situazione.

Parla della sanità troppo eterogenea?

Sì, è uno dei punti deboli del regionalismo. Ci sono regioni che hanno vaccinato più delle altre, per esempio.

Tra due settimane spediremo il Recovery Plan a Bruxelles. Qualcuno pensa sia la cura per tutti mali, una specie di totem. Ma è davvero così?

Il Recovery Plan, se riesce, può fare grandi cose. Ma le condizioni europee sono molto stringenti, mi creda. Però se riusciamo, possiamo tirare un sospiro di sollievo, saremo in un’altra situazione, molto migliore. Il vecchio Def parlava di una crescita al 3% grazie al Recovery Plan. Ci metterei la firma, anzi due.

Certo abbiamo un immenso debito pubblico, di oltre 2.600 miliardi, sull’onda dei 200 miliardi di extra deficit accumulati in un anno…

Guardi, la storia dei debiti pubblici racconta una sola verità. E cioè che per abbassare e contenere il debito serve la crescita. Questo serve nei provvedimenti di emergenza, un qualcosa che sappia di crescita e futuro.

Treu, a giugno cadrà il primo pezzo di muro sui licenziamenti. Che si fa?

Sicuramente servirà ancora Cassa integrazione, ma bisogna rafforzare l’indennità di disoccupazione, la Naspi. Ci saranno dei disoccupati, anche se i numeri che leggo sui giornali mi paiono eccessivi. La priorità è il rafforzamento della Naspi, che è bassa oggi. E poi serve un piano straordinario di politiche attive, che utilizzi i tre strumenti esistenti: i Fondi Interprofessionali per la formazione continua, il Fondo nuove competenze, che va opportunamente rinforzato nelle risorse e l’assegno di ricollocazione, da rifinanziare in concomitanza con un allungamento della durata della Naspi.

I sindacati spesso parlano di incentivi alla formazione dei dipendenti, per soddisfare la domanda di nuove competenze.

Certo, serve in dosi massicce. I lavoratori che non sono a rischio disoccupazione perché non lavorano in un’azienda decotta, la possono e devono fare, come dimostra l’ultimo contratto dei metalmeccanici. In questo modo si riducono i disoccupati, perché se un’azienda aggiorna la propria forza lavoro con la formazione, ha più possibilità di sopravvivere.

Chiudiamo sullo Stato nell’economia. Ilva, Alitalia, ma non solo. Avanza o arretra?

Un po’ di Stato ci vuole nell’economia. Ma anche in altre forme, pensiamo al programma 4.0, previsto anche nel Recovery Plan. Anche questa è politica industriale. E poi rendiamo anche giustizia all’Italia, noi guardiamo all’Italia ma anche i francesi in Air France di soldi ne hanno messi a palate. Personalmente, lo Stato deve dare stimoli e prospettive soprattutto nelle industrie strategiche, come l’acciaio. Però senza perdere miliardi.

 

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