La Turchia ha basato la penetrazione strategica in Africa sulla dimensione economico-commerciale, e su questo con l’Italia ci sono diverse similitudini e spazi di cooperazione. Conversazione con Donelli (UniGenova/Ca’ Foscari)
Turchia, Africa, Mediterraneo, Italia. Macro quadrante composito in cui Roma e Ankara possono trovare sovrapposizioni e contatti, sia a livello politico e che di business. Con quest’ultimo – la sfera economico-commerciale – che è stata la guida centrale delle politiche africane di Ankara, lanciate nel 1998 (epoca pre-AKP) per decisioni prese a seguito di un Consiglio di Europa da cui i turchi avevano capito che il processo di adesione all’Ue non sarebbe stato certo e facile, come spiega Federico Donelli, ricercatore e docente di UniGenova e Ca’ Foscari.
Donelli ha recentemente pubblicato un testo analitico, “Turkey in Africa”, in cui esamina il coinvolgimento strategico turco nel continente che chiude da sud il Mediterraneo. “La strategia è stata quella di aumentare gli scambi economici e creare diversificazione diplomatica e commerciale– spiega, al telefono da Istanbul, a Formiche.net – concepita nel 1998 e attuata a partire dal 2005, sotto la guida dell’AKP, la politica turca verso l’Africa è stata da subito contraddistinta dal coinvolgimento di attori non statuali e dall’utilizzo del soft power ”.
In questa politica estera da trading state, Donelli fa notare che il ruolo della società civile è stato ed è molto importante; è la people-to-people relations applicata nel primo decennio AKP verso il Medio Oriente e i Balcani, declinata in Africa, con Ong, associazioni di categoria, fondazioni caritatevoli, municipalità, e l’incremento della public diplomacy. Ed è in questa che per altro ci sono i principali spazi di cooperazione per l’Italia (ci si arriverà).
“Dietro alle ragioni della crescente presenza turca nel continente c’è anche l’intenzione di costruire quello che potremmo definire un Ankara-consensus: ossia esportare una via di sviluppo turca, alternativa e via di mezzo tra il modello liberale conosciuto come Washington consensus e la formula cinese, percepita da un numero maggiore di paesi africani come neo-imperialista”, aggiunge Donelli, che nota una doppia dimensione: “pratica, legata a economia, intervento umanitario, accordi in tema di sicurezza; ideazionale, funzionale all’ambizione del presidente Erdogan di porsi come figura a livello globale in grado di promuovere le istanze il Sud del Mondo”.
“Il mondo è più grande di 5”, è uno degli slogan che rivendica Recep Tayyp Erdogan (il riferimento è ai cinque paesi del CdS Onu), e questo lo rivendica sia all’Onu che in Africa: “la Turchia mira a promuovere un progetto di riforma della governance globale, basato su una maggiore inclusione, allo stesso tempo la retorica di Erdogan gioca molto sulla dinamica piccoli-contro-grandi, appellandosi ad elementi di terzomondismo dal forte impatto specialmente in Africa”.
Dalla presenza turca in Africa esce una sovrapposizione in un’area di slancio della politica estera italiana. “Quello che è interessante è che in questo ambiente competitivo ci sono anche le basi di una complementarietà tra Pmi italiane e turche che operano in Africa – sottolinea Donelli — sebbene dobbiamo dire che le turche godono di maggiore supporto statale, logistico e finanziario”. Per questo secondo il docente italiano “c’è possibilità di maggiore integrazione su tanti settori, con l’Italia che detiene know how e capacità a cui le aziende turche guardano con interesse e ammirazione”.
Dal punto di vista politico? L’Italia avrebbe potuto sfruttare ancora di più la frattura turco-francese per porsi come interlocutore capitalizzando il vuoto interno all’UE generato dalla Brexit, ricorda Donelli: e forse qualcosa in questo senso è già in corso un passo in più, con il ruolo che potrebbe giocare Mario Draghi in funzione di contatto con Ankara. “Occorre sottolineare che la vita politica turca, segnata da polarizzazione e deriva autocratica, non finisce con Erdogan. Al contrario ci sono segnali di resilienza soprattutto nella società civile turca, secolare e conservatrice. Inoltre dobbiamo valutare che se è vero che la Turchia non può fare a meno dell’Occidente, è altrettanto vero che per Ue, Usa, Nato fare a meno della Turchia significherebbe perdere il principale partner strategico nella regione”.
“Tanto negli ambienti politici di Washington e Bruxelles, quanto ad Ankara, ci sono correnti che premono per una normalizzazione delle relazioni – continua il docente italiano – soprattutto perché il ruolo che gli Stati Uniti vedono per la Turchia è quello di forza in grado di bilanciare o quanto meno contenere le interferenze russe e soprattutto cinesi nella macro-regione che si estende dall’Afghanistan al Sahel passando per il Levante”.
Ankara per esempio usa un elemento, la vendita di hardware miliare, per costruire in questa fase influenza e business. Per esempio, i droni erdoganiani della Bayraktar, che per i turchi stanno diventando la catena di cooperazione internazionale: vendita che potrebbe non dispiacere agli Usa, preferibile certamente ai Wing Loong cinesi (con cui Pechino cerca di rispondere alle richieste di mezzi militari del genere anche da parte dei governi africani).