La morte del presidente ciadiano rischia non solo di gettare il Paese nel caos, ma di creare i presupposti per una destabilizzazione regionale. Ndjamena è un crocevia tattico e strategico nel Sahel che interessa anche all’Italia
Il presidente del Ciad, Idriss Déby, è morto: secondo quanto comunicato ufficialmente dall’esercito è rimasto ucciso mentre visitava un’unità di soldati nella prefettura di Kanem, trecento chilometri a nord di Ndjamena. Governo e parlamento sono stati sciolti, il Paese è passato in mano a un Consiglio militare guidato da Mahamat Idriss Déby, figlio 37enne del presidente ucciso e capo della Guardia presidenziale, il quale ha assicurato che porterà i ciadiani a nuove elezioni presidenziali entro 18 mesi (dopo che il presidentissimo, “il Maresciallo” Déby, era stato rieletto l’11 aprile, con l’80 per cento dei voti).
A ucciderlo, e a chiudere una presa sul potere che dura dal colpo di stato del 1990, sarebbero stati i ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT) — così dicono i militari, sebbene al momento della stesura di questo articolo non è ancora chiaro cosa sia successo, ed è del tutto plausibile che i fatti siano stati alterati per costruire una narrazione più forte sulla sua morte/eredità mentre in realtà è finito vittima di un complotto. D’altronde c’è da chiedersi cosa ci facesse al fronte, scoperto davanti all’attacco dei ribelli. Per ora resta certa solo la morte.
Il FACT è un gruppo politico-militare ciadiano con sede nel Fezzan, la provincia meridionale della Libia i cui confini si fondono, tra le sabbie del Sahara, con quelli di Ciad e Niger. Il gruppo è prevalentemente gorane (popolo di pastori nomadi noto anche come Daza, diffuso nella regione del Sahara centrale, importanti in Ciad se si considera che l’ex presidente Hissene Habré , che respinse Gheddafi nel Tibesti, era uno di loro). È stato creato nell’aprile 2016 nell’estremo nord del Ciad da Mahamat Mahdi Ali, un militante del Partito socialista di Reims (da qui il nome francese). Nasce dalla scissione dall’Unione delle forze per la democrazia e lo sviluppo (UFDD) e da tempo rivendica l’intenzione di deporre il presidente Déby con la forza.
L’11 aprile una spedizione di combattenti è penetrata in Ciad dalla Libia — dove i ciadiani hanno partecipato agli attacchi che il capo dei ribelli della Cirenaica aveva lanciato contro Tripoli dall’aprile 2019 all’ottobre 2020, e hanno ricevuto formazione militare dai contractor russi del Wagner Group. Un cambio di casacca, poiché in precedenza erano allineati con la Terza Forza, brigata misuratina. L’attacco dell’11 aprile era stato rivendicato dal FACT collegandolo alle elezioni presidenziali. Il governo aveva annunciato di avere il controllo della situazione, ma il 17 ci sono stati nuovo attacchi più a sud, a Nord di Mao, una città nella provincia di Kanem.
Mentre duemila militari veniva spediti da Ndjanema al fronte e i carri armati circondavano a protezione il palazzo presidenziale, Usa e Regno Unito richiamavano il personale diplomatico non essenziale per ragioni di sicurezza. I ciadiani l’hanno chiamata la “Battaglia di Zigueï” e ne rivendicavano la vittoria. Il presidente Déby rassicurava che “non c’è niente che possa giustificare il panico di una parte della popolazione, a causa della propaganda maligna diffusa sui social network”, e così si sarebbe spostato al fronte caldo degli scontri per dimostrare che tutto era sotto controllo: lì sarebbe rimasto ucciso.
I fatti del Ciad hanno un peso internazionale perché il Paese è inserito in un contesto regionale delicatissimo. Per esempio è uno di quelli in cui è attiva l’“Operazione Barkhane”, missione militare lanciata nel 2014 dalla Francia (già presente con “Serval” nel 2013) per controllare i gruppi armati (soprattuto jihadisti) nell’area del Sahel, e nella Françafrique. L’esercito di Déby è alleato dei francesi e a che degli americani. Parigi davanti alla situazione è chiamata a intervenire, scrivono da qualche giorno i media africani, perché la destabilizzazione ciadiana farebbe da moltiplicatore alle condizioni che rendono precaria la stabilità regionale — i primi effetti diretti si potrebbero avere sul processo di ricomposizione in corso in Libia.
Non solo: il Paese è anche uno dei luoghi lontani in cui il confronto tra Turchia e Egitto resta acceso, nonostante l’avvicinamento in corso sul fronte mediterraneo. Inoltre va considerato che diversi combattenti ciadiani sono stati usati per aiutare le ambizioni del signore della guerra libico, Khalifa Haftar, sotto finanziamento emiratino: se dovessero tornare nel paese potrebbero complicare gli scontri sfruttando l’esperienza acquisita.
Anche la Russia è toccata da certe dinamiche: Mosca, che ha partecipato alla stabilizzazione del paese con l’Ue, ha un accordo di cooperazione militare con Ndjanema, ma i due paesi si trovano su lato opposto in Repubblica centroafricana — teatro di interessi russi, che potrebbe complicarsi con la destabilizzazione in Ciad. E ancora: l’esercito ciadiano fornisce alle forze di pace delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA, a cui partecipa anche l’Italia) uno dei contingenti più numerosi, ed è considerato il più preparato del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad).
Infine, il Niger, che a fine marzo ha resistito a un tentativo di colpo di Stato, e dove l’Italia ha attivo un contingente come partnership europea a Barkhane (la “Task Force Takuba”) potrebbe subire i disequilibro di Mali e Ciad, e i riflessi alle dinamiche terroristiche concentrate attorno al Lago Ciad (dove si muove anche la milizia nigeriana Boko Haram). Quanto succede nel Sahel è dunque anche un interesse italiano, se si considera che da un eventuale conflitto più esteso potrebbero prodursi flussi migratori: dal Ciad passano (e partono) molti dei migranti che salgono da Sudan e Nigeria cercando fortuna attraverso il Mediterraneo.