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Ucraina. I contatti Usa, i militari russi, la minaccia di distruzione di Lavrov

Gli uomini che gestiscono le relazioni internazionali per l’amministrazione Biden telefonano a Kiev, il Pentagono è preoccupato per l’assembramento militare russo lungo il confine, il presidente Zelensky chiede attenzione su Donbas e Crimea. E Lavrov parla di “distruzione del Paese” in caso di nuovo conflitto

La Russia sta ammassando unità militari verso l’Ucraina, proprio nei giorni successivi al rinvigorimento dei contatti tra Kiev e Washington. La situazione nel paese resta tesa, l’Osce continua a registrare nuove violazioni al (teorico) cessate il fuoco, il governo ucraino che continua a denunciare le azioni delle forze ibride composte da ribelli locali filo-russi e contractor militari (sotto il diretto comando russo) nelle regioni occupate del Donbas (dove in sette anni di conflitto i morti sono arrivati a 14 mila; e continuano a crescere considerando che non più tardi del 26 marzo quattro militari ucraini sono rimasti uccisi in bombardamenti), e Mosca che continua la linea ambigua e minacciosa. Mercoledì 31 marzo la Russia ha rifiutato una proposta per ricomporre il cessate il fuoco avanzata dalla Commissione Trilaterale (composta da Ue, Russia e Ucraina).

Nei giorni scorsi, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, ha telefonato al capo dell’amministrazione presidenziale ucraina, Andriy Yermak, confermando che Washington è al fianco di Kiev nelle rivendicazioni di unità territoriale e sovranità – violati dall’occupazione del Donbas e soprattutto dall’annessione delle Crimea alla Russia (datata 2014, inizio formale della fase di irrigidimento delle relazioni tra Mosca e l’Occidente). Contemporaneamente il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha avuto una telefonata col suo omologo, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, in cui – dice quest’ultimo – si è parlato del “sistematico aggravamento” della situazione della sicurezza nell’Ucraina orientale e in Crimea per colpa della Russia.

Contemporaneamente, c’è stata una conversazione telefonica tra il capo dello Stato maggiore congiunto americano, Mark Milley, e il capo delle forze armate russe, Valery Gerasimov, in cui si è parlato di evitare tensioni ed escalation in una forma di contatto military-to-military. Dal Cremlino fanno sapere che i recenti movimenti di truppe russe e di materiale militare vicino ai confini con l’Ucraina “mirano a garantire la sicurezza di Mosca e non soni una minaccia per nessuno”. Ma intanto arriva la minaccia del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, secondo cui “una nuova guerra nell’Est (nel Donbas, ndr) si porterebbe dietro la distruzione del Paese”.

Il doppio collegamento Washington-Kiev, e quello con Mosca, in una fase in cui sale la tensione fa ufficialmente tornare gli Stati Uniti in una posizione di pressione sul dossier Ucraina, dopo che durante l’amministrazione Trump il fascicolo era stato parzialmente tralasciato e finito vittima della vicenda contro Joe Biden che aveva portato l’ex presidente all’impeachment. Un rinvigorimento delle relazioni che arriva all’interno di un quadro più ampio che vede gli Stati Uniti guidare l’Occidente (leggasi Ue e Nato) verso posizioni più severe nei confronti della Russia – posizioni a tutela del rispetto dei diritti umani e democratici, e contro quello che è ancora un rivale strategico (nonostante gli Usa siano consci delle ridimensionamento russo).

Quello che succede è anche frutto di dinamiche interne. “È importante tenere d’occhio l’Ucraina orientale nei prossimi giorni – scrive su Twitter Michael Carpenter, direttore del Penn Biden Center – mentre la Russia aumenta le sue forze e aumenta i suoi attacchi. Sembra che il Cremlino stia cercando una ricompensa per i recenti tentativi di mettere da parte diverse figure filo-russe (una delle ragioni per cui Putin mantiene i conflitti al primo posto)”.

Da Kiev, il presidente Volodymir Zelensky recepisce favorevolmente la vicinanza americana. Il conflitto è un peso reale per il paese e per la sua narrazione politica. L’idea della “Piattaforma Crimea”, summit internazionale per spingere la sensibilizzazione verso la necessità che la penisola torni all’Ucraina, è un’iniziativa lodevole quanto dagli obiettivi poco probabili. La Russia difficilmente potrà accettare di cedere, e le cancellerie occidentali sembrano affrontare il dossier in modo remissivo. Per questo è importante il rinnovato interessamento di Washington attraverso quelle conversazioni in cui si sono discussi i modi per rafforzare la cooperazione in tema di sicurezza.

Sullo sfondo pende l’offerta tattica della Turchia, che un paio di mesi fa ha proposto a Kiev i propri droni – arma geopolitica come visto nel Nagorno-Karabakh o in Libia. Ankara si pone come una sorta di mediatore armato, e si sostituisce nel compiere il lavoro sporco agli occidentali difendendo nella retorica a uso interno il destino dei tartari crimeani. Attenzione: l’eventuale uso dei droni acquistati dalla Turchia potrebbe riguardare il Donbas, non la Crimea; ossia solo sull’area in cui la Russia nega di avere contatti con i separatisti, e non la penisola crimeana in cui è istallata la sede della Flotta del Mar Nero e considerata dalla Federazione Russa (sebbene non dalla Comunità internazionale) a tutti gli effetti territorio russo dopo il referendum (alterato) di annessione.

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