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A chi conviene l’instabilità dei Balcani? L’analisi di Pellicciari

La proposta di ristrutturazione dei Balcani parte dalla Slovenia, nell’inerzia europea, rischia di cancellare i confini del Kosovo, affondare gli accordi di Dayton, riaccendere la polveriera balcanica. Chi ha in mano la miccia? L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino / Luiss)

È questione dibattuta quali passaggi portino alla guerra civile e come riconoscerne i primi segnali. Per chi la subisce, ne va di mezzo la differenza tra il salvarsi o rimanervi intrappolato. Un solo giorno prima degli scontri si lascia il Paese con i diritti del viaggiatore. Dopo, si rientra nella lotteria dei profughi.

Purtroppo più il contesto entra in crisi sviluppato, più chi lo vive fatica a convincersi dell’arrivo implacabile del vento della distruzione. Non a caso la guerra in Bosnia ed Erzegovina ha fatto tante vittime nelle zone urbane: per i residenti fu difficile prevedere che, un decennio dopo avere ospitato i giochi olimpici, Sarajevo si sarebbe trasformata in un cimitero a cielo aperto.

Altra questione discussa è il peso nella genesi della guerra dei fattori endogeni domestici e di quelli esogeni internazionali.

Negli anni si è rafforzata l’idea che all’origine dei conflitti nei Balcani vi siano stati motivi di politica interna, di élite che pur di legittimarsi nel post-comunismo e incapaci di una visione futura, non hanno esitato a far rivivere vecchie divisioni del passato in chiave strumentale. Da questa prospettiva, l’odio etnico non appare causa ma conseguenza di uno scontro politico.

In una stanza balcanica infiammabile, si lanciò una torcia accesa a scatenare quanto poi si è visto e rivisto negli anni 90. Fu atto incendiario doloso: in politica come nella vita i fenomeni di auto-combustione non esistono.

Eppure col tempo, senza nulla togliere a questa chiave di lettura, emerge che i fattori internazionali più che causare le crisi balcaniche hanno contribuito al loro cronicizzarsi.  In particolare in Bosnia ed Erzegovina ed in Kosovo le numerose missioni internazionali che vi risiedono stanziali da decenni pongono la questione se esse lavorino per trovare una soluzione alle crisi (e finire il loro mandato) o piuttosto congelarle (per restarvi a tempo indefinito).

Non è questione solo di benefit professionali e finanziari per individui ed organizzazioni che vi operano (a capo dell’Ohr a Sarajevo da 12 anni è Valentin Inzko, politico austriaco di secondo piano). Esistono anche motivi politici più alti.

Triste a dirsi, ma nel gioco degli specchi diplomatici della vecchia Europa, un’instabilità “controllata” del contesto balcanico offre ai Big Players più opportunità che problemi – e quindi va tollerata, intervenendo solo quando si superano certi limiti (con scontri armati, per esempio).

Per quanto riguarda Pristina, Berlino apertamente osteggia un accordo serbo-kosovaro oramai alla portata e sostenuto con forza proprio dagli Usa. Clamoroso è stato il timing dell’arresto di Hashim Thaci proprio in prossimità del suo incontro organizzato a Washington da Donald Trump con il suo collega serbo Aleksandar Vucic, a sua volta pare autorizzato ad andare da Vladimir Putin.

L’asse euro-tedesco obietta che quell’accordo non è accettabile perché cambierebbe gli attuali confini –  con un effetto a catena che provocherebbe il risveglio di vecchie ambizioni territoriali, non solo in Europa.

Sarebbe argomentazione logica ma la cui spontaneità è messa a dura prova dalla notizia – incredibile per chi si occupa di Balcani – della proposta informale circolata a Bruxelles su una soluzione della questione bosniaca e Kosovara degna del Dott. Stranamore di Peter Sellers.

Giocando al Risiko, il piano prevede un’annessione alla Croazia di ampie zone sud-ovest del paese (tra cui l’Erzegovina Occidentale, a larga maggioranza croata) e alla Serbia della entità Serbo-bosniaca, lasciando una piccola Repubblica sovrana nel mezzo, quasi esclusivamente musulmano- bošnjak. Per il Kosovo, il progetto prevede di unirlo alla Albania “perché di fatto il confine tra i due paesi non esiste” (sic).

La motivazione della proposta è quasi peggio dello stesso piano: ovvero, questo Frankenstein servirebbe a limitare l’influenza della Turchia nei Balcani (!?). Come a dire che per svuotare il portacenere di un auto, la si provvede a girare con una gru.

L’ idea è tanto bizzarra da non meritare commenti se non fosse per chi l’ha avanzata e per il momento in cui cade. Pur contenuta in un documento non firmato, pare riconducibile al Primo Ministro Sloveno Janez Jansa, con il sostegno del Presidente Borut Pahor, che ne avrebbe incautamente anticipato i contenuti alla esterrefatta presidenza collegiale di Sarajevo, tra cui il croato-bosniaco Zeljko Komsic.

Il nome di Pahor, politico tutt’altro che populista (si veda la commemorazione a Basovizza con Sergio Matterella) e l’imminente inizio della presidenza slovena del Consiglio della UE autorizza ad ipotizzare che non si tratti di una isolata gaffe diplomatica.

Da sempre vicina al mondo austriaco-tedesco Lubiana conosce la complessità del minestrone balcanico e potrebbe avere ricevuto il mandato dalle cancellerie europee di riferimento di testare il terreno, o peggio – prepararlo ad uno stravolgimento che riporterebbe la Bosnia ai tempi del piano Cyrus Vance e David Owen (1994). E il Kosovo ad una difficilissima coesistenza statuale con l’Albania: i due paesi hanno sistemi politici diversi e a più riprese hanno fatto capire che Pristina e Tirana rispondono a dinamiche interne specifiche, oramai consolidate.

L’unico obiettivo sicuro di questo piano sarebbe di fare saltare in aria i pezzi del puzzle balcanico che, lungi dall’essere completato, aveva comunque iniziato a prendere una forma in 25 anni dagli accordi di pace di Dayton.

Ça va sans dire, è uno scenario che allontanerebbe di decenni qualunque soluzione sostenibile per l’area e vi giustificherebbe un rafforzamento della presenza internazionale e delle sue ramificazioni locali. Che forse, a voler pensare male, è il vero obiettivo di donatori che ricordano l’infermiera Misery di Stephen King. Soccorrono il paziente ma per imprigionarlo su una sedia a rotelle.


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