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Accordo marittimo per proteggere la Palestina. La pazza idea turca

Una proposta sul Daily Sabah lancia uno scenario pericoloso: Ankara potrebbe costruire con la Palestina un accordo marittimo simile a quello con la Libia. Ecco come Erdogan vuole sfruttare la crisi

La Turchia dovrebbe firmare un accordo sulla giurisdizione marittima con la Palestina simile a quello che ha fatto con la Libia, per rafforzare la leva dei palestinesi nella sfera internazionale e fornire motivazione agli altri Paesi per firmare accordi con loro. L’idea l’ha lanciata uno dei principali teorici della dottrina turca della “Patria Blu” – detto sintetizzando, Patria Blu è una visione del mondo che parte in senso pratico dalla proiezione geopolitica di Ankara sul mare, pensata con l’idea di costruire una serie di alleanze e influenze dal Mediterraneo al Mar Nero che possano spingere l’immaginazione anatolica oltre i propri confini.

A parlarne in declinazione palestinese è Cihat Yaycı, ex contrammiraglio della marina turca e capo del Centro di strategie marittime e globali dell’Università Bahçeşehir. Yaycı affida i suoi pensieri al Daily Sabah, media che interpreta e propone la linea governativa del presidente Recep Tayyp Erdogan. L’ex contrammiraglio ha fama ambigua in Turchia: ideatore dell’accordo marittimo con il GNA onusiano di Tripoli; motore del pensiero Patria Blu insieme all’ideatore, l’ammiraglio Cem Gürdeniz; un anno fa esatto ha avuto un duro scontro retorico con Hulusi Akar, ministro della Difesa e generale quattro stelle, che non apprezzando troppo il protagonismo mediatico di Yaycı (che esce dall’abitudine dei militari turchi) lo costrinse a dimettersi dallo Stato maggiore della marina.

Quello sul Daily Sabah è uno slancio pericoloso. L’idea di battere l’isolamento di Gaza attraverso un accordo marittimo con Ankara sarebbe devastante per le relazioni turche con Egitto e Israele, diventando un ostacolo enorme nella fioritura di dialoghi regionali che si sono innescati. Dialoghi di cui la Turchia stessa è parte, sia col Cairo che in forma meno sponsorizzata con Tel Aviv e altri attori regionali come l’Arabia Saudita. Ma contemporaneamente Ankara segue anche quella pulsione geopolitica (o forse quell’avventurismo) che ne sta caratterizzando queste fasi.

Con la Libia, ha sfruttato la crisi innescata dall’assalto del capo miliziano ribelle, Khalifa Haftar, per crearsi uno spazio inedito. Una sorta di mediatore armato sia dei droni che hanno martellato gli uomini della Cirenaica, sia degli strumenti politici con cui ha difeso il governo che l’Onu aveva impostato a Tripoli da una debacle quasi certa. Uno di questi strumenti è stato l’accordo marittimo, studiato per dare spessore internazionale all’esecutivo guidato ai tempi da Fayez al Serraj, ma anche per incunearsi tra le dinamiche in divenire del Mediterraneo orientale – dove la Turchia nutre rivendicazioni territoriali contro Cipro e Grecia, oltre che spazi nel sistema geopolitico che ruota attorno alcuni reservoir energetici.

Erdogan sfrutta il nuovo innesco dello scontro militare tra Israele e Hamas in modo simile. Ossia prova a sfruttare la questione palestinese per i propri interessi imperiali; aspetto a cui hanno rinunciato ormai le monarchie del Golfo, portate dagli Stati Uniti alla firma degli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico (accordi che si portano dietro il peccato originale di aver lasciato le rivendicazioni palestinesi da parte, secondo un pensiero politico spinto da sempre dal premier israeliano Benjamin Netanyahu).

È anche in questo caso una questione retorica, utile però al presidente turco per crearsi uno standing, sfruttando una situazione il cui disinnesco è considerato da tutte le parti della Comunità internazionale come cruciale – visto il numero di vittime civili, anche bambini, che sta crescendo. “Fermiamo il massacro” ha detto Erdogan lunedì mattina in una telefonata al Pontefice, a cui ha chiesto un impegno comune di “musulmani, cristiani e dell’umanità intera”. Papa Francesco è tra quella ventina di leader internazionali che Ankara ha chiamato nel giro di questa settimana di scontri.

Dal nigeriano Muhammadu Buhari al malese Mahathir Mohamad, passando dal premier iracheno, Mustafa Al-Kadhimi, fino ad arrivare a criticare Joe Biden accusato di “scrivere la storia con le mani sporche di sangue” – perché protegge troppo Israele. Ankara, secondo Yaycı, “è il candidato democratico più appropriato per agire come mediatore” se le autorità palestinesi facessero tale richiesta: “Ciò gioverebbe alla Palestina e rafforzerebbe le sue relazioni con la Turchia”. Erdogan considera certe crisi un moltiplicatore di potenza, al di là della considerazione che il contrammiraglio goda ancora tra la leadership turca.

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