Il ministro degli Esteri rinsalda il vecchio legame con Salvini sull’allentamento delle misure restrittive. Con loro c’è il presidente emiliano, in barba alla linea prudente del Pd. Ma se passa la linea “madrilena”, il vero vincitore è Draghi con il suo rischio ragionato. Il mosaico di Fusi
Per un ministro degli Esteri conoscere le lingue è senz’altro un vantaggio. Così Luigi Di Maio poggia sulla sua scrivania alla Farnesina una cartina geografica dell’Europa e volge la testa a sinistra, fermando lo sguardo sulla Spagna. Vede che c’è un buco politico che si chiama Podemos che ha consumato tutto il patrimonio degli indignatos, prosecutori madridisti del Vaffa ormai d’antan, mentre si staglia la figura di Isabel Diaz Ayuso, popolare di nome, di fatto e di voti, e si rivolge al suo staff: Toque de queda? No más. Tradotto per chi non ha letto Cervantes in originale: coprifuoco, meglio di no.
Così il 16 maggio rischia di diventare la data che sana una vecchia ferita che altri hanno cosparso di sale mentre i protagonisti del primo governo della legislatura hanno curato giorno dopo giorno evitando la suppurazione. È il giorno che il Consiglio dei ministri può scegliere per allentare o addirittura abolire il coprifuoco, misura emblematica dell’emergenza sanitaria giunta vicina al traguardo dell’archiviazione.
Dal punto di vista sanitario e della vita dei cittadini, sarebbe la conferma emblematica del cambio di passo nell’azione epidemiologica anti-Covid. Politicamente, potrebbe rappresentare il riavvicinamento tra Salvini, “aperturista” principe, e Di Maio, esponente del partito (ex premier compreso) che più di tutti contro il Capitano si è scagliato facendo diventare quella scelta identitaria del Conte 2 e dell’alleanza con Pd.
Il riferimento alla Spagna è tutt’altro che casuale perché la Ayala ha stravinto proprio su una linea aperturista. Di Maio, a cui non manca un certo fiuto politico, si è messo a scia e poco importa se qualcuno nel MoVimento storce la bocca. La linea oltranzista del tutto chiuso non funziona più, i cittadini oramai non la sopportano pur se molti di loro, sciaguratamente, rinunciano a rispettare elementari e fondamentali misure di sicurezza, dalle mascherine al distanziamento.
Di questo e dei vaccini, però, si occupa il generale Figliuolo. Del fatto politico, invece, il titolare degli Esteri se ne appropria. Per per prima cosa, per riannodare il filo di un rapporto con Salvini che all’inizio della legislatura diede vita ad un governo che Giuseppe Conte ha demolito tuonando in Senato contro l’ex ministro degli Interni per una operazione che Luciana Littizzetto (ha usato il termine per intitolare un suo libro) chiamerebbe di rivergination governativa e Di Maio, al contrario, non ha mai rinnegato. Poi per stare nel solco del sentimento prevalente negli italiani. E infine per togliere proprio a Salvini il monopolio di una battaglia di grande impatto mediatico.
In fondo è lo stesso meccanismo che spinge il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, esponente di spicco del Pd ed ex presidente della Conferenza delle Regioni, anche lui fautore di una revisione del coprifuoco. Salvini-Di Maio-Bonaccini: un bel trio di maggioranza.
Qualcuno a questo punto potrebbe dire che il leader leghista si è intestato e ha vinto questa mano di poker su una linea politica che sposta a destra l’asse dell’esecutivo. Sarebbe una lettura superficiale. In realtà se davvero bisogna cercare un vincitore occorre addentrarsi nei corridoi di palazzo Chigi fino ad arrivare allo studio del presidente del Consiglio. È SuperMario Draghi che ha scelto la strada del “rischio ragionato” nel contrasto alla pandemia. Mossa quanto mai politica. Ed è l’ex presidente della Bce che vede allineati i due ex vicepremier in un modo che comunque sia rinforza il governo della larga, strana, difficile ma priva di alternativa maggioranza di unità nazionale.
Draghi le lingue le sa e anche lui le usa. A Oporto ha illustrato le linee guida del Recovery per come le concepisce lui. Sapendo in cuor suo che la coalizione che guida è complicata e percorsa da fortissime correnti. Ma che Di Maio ora sta cementando. Chissà cosa ne pensano Conte e soprattutto Enrico Letta. Il leader Pd infatti sta cercando candidati unitari per le amministrative. Ma per quello che riguarda Roma si è sentito ripetere dal ministro degli Esteri che Virginia non si tocca. Perché oltre al cemento nei Cinquestelle “liberali” non si può rinunciare al piccone.