I talebani stanno costringendo al ritiro le forze di sicurezza afghane da alcune città ad est, mentre la Turchia si propone come pacificatore finale. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore, primo italiano al capo di Stato maggiore della missione Isaf
È ancora presto per definire un insuccesso il piano concordato tra governo afghano e talebani a Doha, in Qatar, per il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan, ma non c’è dubbio che si sperava in un passaggio con meno frizioni tra le parti sul campo. Un segnale non positivo in questo senso era già stato dato con la posticipazione sine die a dopo la conclusione del Ramadan del
Certamente, chi sperava in un semplice “cambio di governo” da concordare tra le parti, col conferimento della responsabilità a una nuova coalizione, “più inclusiva” per usare il linguaggio iniziatico dei nostri politici, resterà deluso. Non si è trattato, infatti, di una semplice riedizione in salsa afghana delle “consultazioni” alle quali ci ha abituato la liturgia quirinalizia, per designare il nuovo temporaneo reggitore delle sorti del governo. Piuttosto, si trattava di trovare un compromesso accettabile per entrambe le parti per far scorrere meno sangue possibile durante un cambio annunciato che si sapeva comunque drammatico. Sul campo, infatti, dove dall’invasione sovietica nel 1979 i conti si regolano con la forza delle armi, le logiche dei compassati colloqui effettuati nel ricco paese del Golfo fanno fatica a passare ed evidenziano una specie di cesura tra i “Talebani di Doha” e quelli “sul campo”.
Si sofferma su questa inedita situazione un reportage sul New York Times che descrive la crisi morale che si manifesta in una ondata di diserzioni e di abbandono di posto in alcune località del paese, da parte di militari e poliziotti afghani.
In particolare, la cronaca si sofferma su alcune province della regione est del paese (Wardak, Baghlan, Laghma
Si potrebbe osservare che questa situazione riguarda soprattutto l’Afghanistan orientale, esposto a quel permeabilissimo confine col Pakistan dalla cui “area tribale” arrivano da sempre le principali minacce a Kabul, da parte dei Talebani della Shura di Qetta, ma anche dalla rete di Jalaluddin Haqqani
Ma è certo che i segnali di una crisi morale tra le forze di sicurezza afghane si registra anche in altre aree del paese, come la regione nord, un tempo sotto controllo tedesco e quella ovest, di nostra precipua responsabilità. In quest’ultima, aree nelle quali le nostre unità hanno operato a lungo, come la provincia di Farah, sono in parte tornate sotto controllo talebano, mentre in altre, come Bala Murgab e il Gulistan le unità afghane soffrono le difficoltà di alimentazione e di rinforzo dovute anche a una rete viaria difficile ed esposta alle iniziative avversarie.
Insomma, non c’è dubbio che nonostante il tentativo di un passaggio concordato tra le parti, i talebani che operano sul campo non resistono alla tentazione di trasformare in vittoria quello che i colloqui tuttora in corso a Doha vorrebbero si limitasse ad un “pareggio”, ancorché solo formale.
Certo è che il tentativo di esportare il modello occidentale in Centro Asia, come in altre parti del Globo (si pensi alla Somalia, all’Iraq e alla Libia) è miseramente fallito. E questo forse non è un male se ci aiuterà a considerare con il giusto rispetto e col dovuto realismo un mondo che è molto più vario di quanto una visione puramente globalista vorrebbe ammettere. Un mondo che non si inchina alle ragioni del politicamente corretto con le quali noi spesso sacrifichiamo la realtà all’ideologia, fino al punto di negare (o cancellare) la storia per adeguarla alle nostre fissazioni e infatuazioni.
Per quel che riguarda il ritiro del nostro contingente, per ora non pare ci siano problemi ed il tutto sta procedendo secondo la programmazione elaborata dal COI. La base di Herat è ancora sicura e comunque l’area è relativamente tranquilla e sotto controllo delle forze afghane. Inoltre, la vicinanza di Herat all’Iran, tradizionale nemico dei talebani, potrebbe rivelarsi utile anche in questa delicata fase.
Ma più in generale, la tenuta dell’Afghanistan dipenderà in larga misura dalla capacità del Governo di Kabul di ribaltare la percezione di un ritiro americano di tipo “vietnamita” che lasci spazio a una serie di vendette senza fine, rinforzando invece il morale delle unità dedicate al controllo del territorio. Ma per questo dovrà continuare a contare sul supporto statunitense, soprattutto per il controllo dell’area dallo spazio aereo. Soprattutto, poi, dovrà fare affidamento sulla Turchia, che ha già annunciato di voler rimanere nel paese per aiutare la transizione con una operazione di pace. Le truppe di Ankara potrebbero certamente svolgere un ruolo di intermediazione importante per la loro natura, diversa da quelle del resto degli “infedeli” della Nato; e non si malignerebbe troppo nel sospettare che Erdogan si stia fregando le mani di fronte ad una realtà che lo conferma di giorno in giorno protagonista assoluto di un’area nella quale – dalla Libia, al Mediterraneo centro-