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La privacy è bella finché non bisogna vendere qualche milione di iPhone

Il colosso tech che fa della privacy una bandiera ha lasciato le chiavi dei suoi cloud e delle sue app al partito-Stato cinese, lasciando che migliaia di app fossero censurate perché parlavano di argomenti tabù per il regime

Apple si pone sul mercato come leader in fatto di privacy. Con l’ultimo aggiornamento software dei propri telefoni la compagnia californiana sembra aver rimesso in mano agli utenti un certo livello di controllo sul tracciamento dei propri dati personali. A livello pubblicitario, intanto, spinge una promessa: con ogni iPhone c’è più sicurezza rispetto ai telefoni concorrenti.

Al netto del potenziamento dei propri servizi digitali, la casa di Cupertino rimane una compagnia che vende hardware. Questo le dà un vantaggio rispetto all’altro grande player nel mondo del software per smartphone, ossia Google, che essendo la più grande compagnia pubblicitaria sul pianeta deve affrontare altri problemi nella gestione dei dati degli utenti. La Apple invece vende un “pacchetto” completo, hardware e software a sistema chiuso – e non ha paura di mettere il tutto al centro della propria strategia di marketing.

Ma per Apple la privacy pare essere anche una questione di principio. Nel 2015 il ceo della compagnia Tim Cook l’ha definita “un diritto umano fondamentale” mentre a gennaio 2021 l’ha chiamata “una delle questioni più importanti del secolo” e ha dichiarato che va messa sullo stesso piano del cambiamento climatico. La compagnia è così dedicata a proteggere la privacy dei propri utenti – e la propria nomea – da essersi rifiutata di sbloccare il telefono di uno dei terroristi dietro all’attentato di San Bernardino del 2015, costringendo la Fbi ad arrangiarsi con altri mezzi. Eppure tutti questi valori vengono meno nell’istante in cui la casa californiana entra in Cina.

A differenza di altre compagnie Big Tech, Apple ha un legame strettissimo (e ventennale) con il Dragone. Oggi quasi tutti i prodotti Apple sono fabbricati in Cina, Paese dove realizza un quinto delle proprie vendite complessive (parliamo di circa 50 milioni di iPhone ogni anno). Ma per il privilegio di poter accedere al mercato cinese la Apple ha dovuto piegarsi ai dettami del Partito-stato, compiendo compromessi che minano alla base il mantra pro-privacy a cui tiene così tanto.

Un’inchiesta del New York Times rivela che dal 2017 la Apple stocca i dati dei propri clienti cinesi su server locali, di proprietà e sotto il controllo di compagnie possedute dal governo cinese. Anche le “chiavi” digitali di quei dati sono salvati sugli stessi server, di modo che Pechino abbia virtualmente accesso a qualsiasi tipo di informazione personale dei clienti salvata su iCloud – email, foto, documenti, contatti, calendari, dati geolocalizzanti e altro ancora.

Apple ha detto al NYT di essere in possesso delle chiavi digitali e di non aver mai compromesso la sicurezza dei propri clienti cinesi, ma la legge locale impone a qualsiasi entità privata di condividere i dati in proprio possesso col governo alla bisogna – lo stesso problema, identificato dagli americani e anche dal Copasir, che rende difficile affidarsi in toto all’equipaggiamento 5G fornito da produttori cinesi.

Inoltre, il fatto di aver salvato i dati in server locali consente alla Apple di aggirare il divieto di condividerli con le autorità cinesi imposto da Washington. Il colosso americano ha fatto di Guizhou-Cloud Big Data, una compagnia di proprietà del governo provinciale di Guizhou, il proprietario legale dei dati iCloud dei propri clienti cinesi. Così le autorità locali possono chiedere i dati direttamente a quest’ultimo ente – cosa che ha fatto già nove volte, stando alla Apple stessa.

One more thing: anche le applicazioni ospitate sullo store digitale di Apple sono monitorate e rimosse proattivamente in linea con le necessità censorie del Partito-stato. Stando al NYT la compagnia ha creato una sorta di burocrazia interna che utilizza software speciali per scovare argomenti off-limits, come Tiananmen Square, il movimento spiritualista Falun Gong, il Dalai Lama e l’indipendenza di Hong Kong e Taiwan.

Circa 55 mila applicazioni per iPhone sarebbero scomparse dagli scaffali digitali cinesi. 35 mila erano giochi (che in Cina devono passare al vaglio dei censori) mentre le restanti 20 mila includevano svariate categorie, tra cui testate giornalistiche estere, app di incontri per persone gay, servizi di messaggistica criptati, strumenti in grado di aggirare le restrizioni locali alla navigazione internet e modalità di organizzazione di proteste pro-democrazia.

Tutte queste restrizioni contraddicono direttamente la nomea pro-privacy che la compagnia coltiva a livello internazionale. Ma per Apple si tratta semplicemente di aderire alle norme locali. “Le decisioni non sono sempre semplici, e in certi casi non siamo d’accordo con le leggi che le plasmano”, ha detto il colosso tech in un comunicato; “la nostra priorità rimane creare la migliore esperienza per l’utente senza violare le regole che siamo obbligati a seguire”.

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