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Meno debiti, più stadi. Perché il calcio italiano deve cambiare

La pandemia ha dato un colpo durissimo a un’industria che soffre di problemi cronici e strutturali da diversi anni. Troppi debiti, ingaggi alti e pochissimi impianti dei club. Ora occorre una sterzata. L’incontro organizzato da Formiche.net e Standard Football con Malagò, Gravina, Christillin, Calcagno, Baldissoni, Abodi e Calvosa

Lo sport più bello del mondo dopo la grande pandemia. Dopo quattordici mesi di stadi vuoti e partite accompagnate dal solo rumore delle voci dei giocatori e dei fischi dell’arbitro e con ancora l’adrenalina del tentato colpo di mano della super Lega addosso, è lecito chiedersi se e come è cambiata l’industria del pallone, che in Italia vale oltre 10 miliardi di euro e garantisce l’occupazione di 120 mila persone. Un’industria alle prese con problemi strutturali su cui si è abbattuta la crisi innescata dai lockdown. Un tema su cui si sono confrontati i massimi rappresentanti del mondo calcistico tricolore, riuniti da Formiche.net nell’evento realizzato in collaborazione con Standard Football, la piattaforma economica del calcio.

Al dibattito web, moderato e dal direttore di Formiche.net Giorgio Rutelli e introdotto dal presidente di Formiche, Gianluca Calvosa, hanno preso parte, Giovanni Malagò, presidente del Coni, Gabriele Gravina, presidente Figc, Evelina Christillin, membro del consiglio della Fifa, Andrea Abodi, presidente Istituto per il Credito Sportivo, Mauro Baldissoni, residente Standard Football e Umberto Calcagno, presidente Associazione Italiana Calciatori.

UN PALLONE IN CRISI

Che il calcio professionistico italiano sia in crisi da ben prima della pandemia è cosa nota. Il Covid ha dato un colpo durissimo a un’industria da troppo tempo poco virtuosa in termini di sostenibilità finanziaria. Lo dicono i numeri di alcune slide presentate da Gianluca Calvosa nel corso dell’evento e realizzate da Standard Football. “I costi del comparto sono cresciuti più che proporzionalmente rispetto ai ricavi generando una perdita aggregata strutturale e determinando, in assenza di adeguate capitalizzazioni e di facilità d’accesso al mercato dei capitali, un conseguente indebitamento crescente”, si legge nella prima slide. E che la pandemia sia solo il terminale di una crisi più profonda, è provato anche dal fatto che “nel decennio pre-Covid, la Serie A registra il peggior risultato netto aggregato tra le 5 leghe principali. E sempre in periodo pre pandemia è la lega col minor numero di club in utile”.

Dati Standard Football

Poi è arrivato il Covid. Ovvero, “una perdita cumulata stimata in 6 anni per il calcio italiano, pari a 2,4 miliardi. Un effetto senza precedenti, con una crisi congiunta di domanda e offerta”, si legge nell’indagine presentata nel corso dell’evento. Come detto però, il calcio si porta dietro problemi strutturali, primo tra tutti gli stadi e i salari. “Nei 5 anni pre-Covid i salari dei calciatori italiani hanno registrato una crescita importante. L’unica lega virtuosa sul fronte salari è quella tedesca, mentre la serie A registra un eccesso strutturale del monte ingaggi dei calciatori stimato in almeno il 5%, che supera il 17% se si considera l’effetto depressivo indotto dalla pandemia”. E poi c’è il grande problema: gli stadi. In Serie A soltanto il 10% dei club possiede lo stadio in cui gioca, tutto il contrario di Inghilterra e Spagna.

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UNA CURA PER IL CALCIO

Insomma, il calcio italiano se la passa male e non solo a causa del Covid. Giovanni Malagò, uomo che il mondo del pallone lo conosce bene, ha sottolineato la necessità di affrontare una volta per tutte il problema. “Il calcio fino a questo momento è stato bravo, bravissimo. Perché prima di tutti e tutto è riuscito a ripartire. E di questo bisogna darne atto. Ma detto questo, se vogliamo risolvere una volta per tutti i mali del calcio non possiamo aspettare che qualcuno tiri fuori il coniglio dal cilindro. Magari aspetta un aumento dei diritti TV, o si fa una riforma strutturale oppure si fanno gli stadi di proprietà, che garantiscono introiti ai club che li possiedono”, ha spiegato Malagò. “Di sicuro ognuna di queste cose può aiutare un’industria che soffre e che vive una crisi, a tratti, drammatica. Soprattutto per quanto riguarda gli stadi, il contesto più difficile per il mondo del pallone. Serve un grande evento internazionale che sia da traino per l’industria, non importa in quale città”.

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Evelina Christillin ha invece posto l’accendo sulla necessità di avviare una seria ripartizione dei ricavi dei club. “Faccio notare come le dodici squadre che avevano dato vita al progetto della super Lega, abbiamo accumulato nel solo 2020 730 milioni di debiti. Ecco che allora, se c’è una riforma alla quale dobbiamo lavorare, è proprio quella dei ricavi, che vanno ripartiti in modo diverso rispetto ad oggi”. Un discorso, quello dei debiti, condiviso anche da Mauro Baldissoni, che ha ricordato come “proprio quei club più ambiti, siano anche quelli più indebitati, perché quando comprano un giocatore importante, scontano anche l’effetto superstar, che inevitabilmente ha il suo peso”.

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E allora forse, per dirla con le parole di Umberto Calcagno, è tempo di “un nuovo patto tra giocatori e club per la sostenibilità del pallone. Mi chiedo quando siederemo attorno a un tavolo, assumendoci ognuno le proprie responsabilità? Abbiamo calciatori professionisti che guadagnano meno di 50 mila euro lordi all’anno, se non creiamo gli strumenti per una nuova sostenibilità del sistema, tutto quello che faremo porterà a benefici di basso respiro”. Il rappresentante dei calciatori si è poi espresso contro il tetto salariale agli ingaggi, meglio conosciuto come salary cap. “Noi abbiamo avuto per 10 anni il salary cap in Serie B ed è stato un fallimento. Penso sia un qualcosa di riduttivo per i nostri dirigenti”. Il capo dei calciatori ha poi messo l’accento sulle plusvalenze: “Il costo del lavoro vale il 50% nei bilanci delle squadre. Nella parte restante c’è anche il fenomeno delle operazioni che spesso non corrispondono a un vero valore economico”.

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Tornando alla questione degli stadi, secondo Andrea Abodi “la questione del patrimonio immobiliare è tutto, o quasi, nel mondo del calcio. Occorre lavorare, ma lavorando al meglio con le norme che abbiamo. Voglio dire che abbiamo bisogno di una metodologia. La pandemia fa riflettere e dovrebbe tirare fuori il meglio di noi. Al di là dell’ottimismo, penso davvero che da questa crisi profonda stiano nascendo grandi opportunità”. E proprio sulla necessità di avere stadi di proprietà, “è evidente che il valore del prodotto anche dal punto di vista televisivo dipende dalle infrastrutture. Finora il mondo del calcio ha messo questo tema al terzo posto, dopo il campionato e il mercato, mentre merita massima attenzione. Insieme all’Istituto per il Credito Sportivo stiamo finanziando sei nuovi impianti”.

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Le conclusioni sono state affidate al presidente della Federazione, Gabriele Gravina. “Tanto per cominciare confido molto nel lucido e costante confronto con il Coni. Dal dibattito è emerso in modo chiaro come il calcia abbia bisogno di più patrimonio e meno debito, questa è la vera sfida. Inutile nascondere che abbiamo bisogno di aumentare i ricavi, io per primo sono per un calcio competitivo e sostenibile”. E molto passa anche per gli stadi. “Sono d’accordo con Abodi quando pone l’accento sugli stadi, che possono essere il viatico per un grande evento sportivo. L’Italia sconta un problema di impianti, vecchi e non adatti a un grande evento. Ma solo con un grande evento noi possiamo ripartire. D’altronde, il nostro calcio sta subendo le conseguenze economiche della pandemia in modo grave anche perché si porta dietro criticità irrisolte. Oggi bisogna essere ancora più risoluti nel trasformare le idee in comportamenti virtuosi, lavorando per aumentare i ricavi, abbassare i costi e distribuire più equamente le risorse. Basta ragionare sulla difensiva. Dobbiamo rivendicare la nostra forza”.

 

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