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La notte del destino. Dialogo tra Melloni e Pallavicini

Il significato di questa “notte del destino”, che arriva proprio adesso, è stato al centro di uno stimolante confronto tra l’imam Yahya Pallavicini, presidente della Coreis, e il professor Alberto Melloni, tra i più noti storici del cristianesimo, promosso dall’Istituto Italiano di Cultura, Abu Dhabi. È la città dove è stato firmato lo storico documento per la fratellanza da Francesco e dall’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb e che promuove iniziativa in tutto il mondo per favorire la migliore conoscenza di sé e degli altri

Si chiama Laylatu al-Qadr, ovvero “notte del destino”. È la notte per eccellenza del mese santo dei musulmani, il Ramadan, quello in cui digiunano dal cibo materiale di giorno, ma non di notte, fino all’alba, quando il digiuno ricomincia. Il significato di questa “notte del destino”, che arriva proprio adesso, è stato al centro di uno stimolante confronto tra l’imam Yahya Pallavicini, presidente della Coreis, e il professor Alberto Melloni, tra i più noti storici del cristianesimo, promosso dall’Istituto Italiano di Cultura, Abu Dhabi. È la città dove è stato firmato lo storico documento per la fratellanza da Francesco e dall’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb e che promuove iniziative in tutto il mondo per favorire la migliore conoscenza di sé e degli altri.

Di questa notte sappiamo poco, del significato di “notte del destino” ancor di meno. Qadr in arabo infatti non vuol dire soltanto “destino”, vuol dire anche “potere”, come “quantità”. La notte del destino è una notte da trascorrere con Dio, pregandolo e cercandolo nel buio che precede l’alba, perché in questa notte si stabilisce il nostro destino per l’anno che viene. Ha scritto Nadia al-Ghaouat che con “qadr” ci troviamo davanti a “un triangolo di parole apparentemente non correlate che per una notte trovano un equilibrio nella loro coesistenza. Di fatto, non è altro che la quantità delle nostre buone o cattive azioni a conferire il potere di definire il nostro destino”. Ecco perché questa notte, al riparo delle cose visibili, si raccontano a Dio le proprie storie, quelle più intime. Di norma siamo alla fine del Ramadan, anche se alcune interpretazioni pongono questa notte, che ricorda quella in cui il Corano fu rivelato a Maometto, in modo meno fisso, variabile nell’ultima decade del mese santo.

Il rapporto con la notte e quindi con il visibile, con l’evidente e con l’invisibile, con il mistero, si ritrova in altri momenti di grande importanza tanto nel cristianesimo che nell’ebraismo. La Pasqua, il Natale – ha sottolineato il professor Melloni – e , al netto della pigrizia omissiva dovuta all’assenza di un corrispettivo di panettone e uovo di cioccolata, anche la Pentecoste, hanno notoriamente il loro fulcro notturno, per la valenza del buio che avvolge il mistero.

Tutto questo ha portato l’attenzione su due temi “evidenti”, appartenenti cioè non al mistero e alla fede, o alla spiritualità islamica, ma al nostro confronto umano e concreto, reale e visibile. Il professor Melloni li ha posti entrambi parlando di una tendenza a basare il dialogo sulla scienza comparativa delle religioni e poi della questione dei limiti posti per via della pandemia al culto, anche notturno, come nel caso delle celebrazioni del Natale e della Pasqua. Una limitazione che ha spinto i fedeli, ha osservato, a celebrare Pasqua e Natale all’ora del tè, per avere una compatibilità con la normativa pandemica. Ovviamente la forza dell’eccezione è evidente, ma se l’inverno prolunga le ore del buio e se si è sostenuto che il valore del buio è il valore del non visibile “a occhio nudo”, alla “luce dell’evidente”, non si è capito per quale motivo questo buio se notturno sia autentico e metaforico, mentre se anticipato “all’ora del tè” sarebbe stato diurno, cioè non buio, non evocativo, non profondo. La profondità non sta nel nostro calarci in un buio che trasporta in un altro “visibile” che non vediamo per effetto della chiarezza del giorno?

Discussione comunque importante, sulla quale Pallavicini si è espresso in termini più aperti all’incontro con le esigenze di ordine sanitario, e seguita da quella sul dialogo e la scienza comparativa delle religioni. Il problema è stato chiaramente espresso dal professor Melloni, per il quale mentre lo studio ci arricchisce nel bagaglio di conoscenze e anche nella scoperta di assonanze, l’impostare su questo metodo comparativo il dialogo può risultare in un limite, quello di cercare una convergenza, un’analogia, perdendo il sapore e il valore della diversità. Questo elemento che è riconducibile all’esigenza di sentirci tutti uguali, tutti nella stessa realtà spirituale, e quindi tutti in una “mega-religione asettica” è un rischio evidente, anche per chi dialoghi dall’esterno di singole fedi e si convinca che basta individuare un “minimo comun denominatore” per capire tutto, fissare tutto, categorizzare lo spirito. È emerso anche da quanto affermato da Yahya Pallavicini: la valorizzazione dell’altro da sé rimane l’esigenza, interiore e culturale, più importante per imparare a vivere insieme e non assimilati in un tutt’uno che invece di farci scoprire la bellezza dell’altro e arricchirci lo appiattisce quanto più possibile, per farlo entrare nel bagagliaio della nostra automobile.



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