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Ci sei o ci Cai? La Cina usa Draghi per la propaganda

Il Parlamento Ue potrebbe bloccare l’accordo sugli investimenti con la Cina. Mario Draghi, invece, è pronto a farlo ripartire, dicono i giornali del Partito comunista cinese. Così l’Italia finisce (ancora una volta) nel mirino della propaganda di Pechino

Il premier italiano Mario Draghi si batterà con tutte le sue forze per difendere l’accordo fra Ue e Cina sugli investimenti che il Parlamento Ue vuole affossare. In verità Draghi non ha mai detto nulla del genere. È però questo il resoconto della sua telefonata con il premier cinese Li Keqiang che la stampa del Partito comunista cinese sta diffondendo ai quattro venti, con un tempismo che non sembra casuale.

Il Global Times, organo di propaganda anglofono, dà l’annuncio sul suo sito. Rilanciando il comunicato ufficiale di Pechino, la testata riporta una presunta citazione di Draghi: “L’Italia sostiene il proseguimento delle trattative per l’accordo Cai (Comprehensive agreement on investments, ndr) attraverso il dialogo, il più presto possibile”.

Peccato che nel comunicato italiano non vi sia traccia di una simile promessa. Palazzo Chigi fa un generico riferimento all’ “esigenza di rafforzare e rendere più equi i rapporti economico-commerciali bilaterali. Nella conversazione sono stati richiamati gli strumenti di dialogo già esistenti”. Peraltro rimarcando che su queste e altre tematiche “esistono ancora differenze di opinione” e che si deve lavorare per rendere “più equi i rapporti economico-commerciali bilaterali”.

Non è la prima volta che fra Roma e Pechino va in scena un curioso gioco del telefono. E in verità qualunque feluca che si rispetti sa bene che sulla stesura dei comunicati nasce sempre un tiro alla fune che alla fine consegna due verità, quasi mai coincidenti. In questo caso però non si tratta di semplice misunderstanding. Attribuire a Draghi, e all’Italia, un aperto endorsement al maxi accordo europeo sugli investimenti con la Cina firmato lo scorso dicembre, è un’operazione politica non banale. Anche perché quel testo ha puntati addosso i riflettori di Washington DC.

Iniziati otto anni fa, i negoziati per il Cai hanno portato a un accordo che ha l’obiettivo di aprire il mercato cinese agli investitori europei e dismettere alcune pratiche tipiche del capitalismo di Stato cinese, come quella dei trasferimenti forzati di know-how imposti alle aziende europee, specie durante la formazione di joint ventures.

Il timing della firma non è piaciuto neanche un po’ alla neo-eletta amministrazione Usa di Joe Biden. Che infatti ha espresso i suoi dubbi con un tweet piccato del Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan chiedendo “una previa consultazione” degli alleati. Ci sono voluti sei mesi per una prima, parziale retromarcia.

Dopo la sospensione dell’accordo annunciata dal Commissario Ue Valdis Dombrovskis, è arrivata la doccia gelata da Strasburgo. Questo giovedì la plenaria del Parlamento Ue metterà ai voti una risoluzione di sostegno allo stop della Commissione. “Viste le sanzioni cinesi nei confronti di deputati europei e nazionali, l’Europarlamento ritiene che la discussione sulla ratifica dell’accordo Ue-Cina sugli investimenti “sia stata giustamente congelata””.



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