Cossiga è stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica europea e mondiale. A differenza del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione, che va ricostruita soprattutto attraverso le sue azioni. Il ricordo di Vincenzo Scotti, già ministro degli Esteri e dell’Interno, che sarà pubblicato in un’opera a cura dell’Università di Sassari
L’Università di Sassari, che ha conosciuto Francesco Cossiga prima come studente e poi come docente della Facoltà di Studi Giuridici, ha organizzato in suo onore, con la presenza del Presidente della Repubblica, una giornata di studi secondo la tradizione accademica.
Dall’insieme dei contributi raccolti in queste pagine emerge, anche per chi non lo ha conosciuto e frequentato, quanto sia complessa la personalità di Cossiga. Essa è stata letta, pur nel rispetto della complessità delle diverse espressioni, alla ricerca della sua unità: uno statista del tempo presente, della sua terra sassarese, della sua nazionalità italiana ed europea e della sua cittadinanza del mondo. Essendomi stato richiesto di partecipare a questa lettura, in nome della nostra amicizia di una vita, non ho potuto che scrivere qualche pagina di testimonianza sul modo con cui Cossiga visse i grandi cambiamenti del contesto storico che cercò di capire andando sempre oltre l’emergenza e guardando oltre la siepe che recingeva il cortile del quotidiano. Nello scrivere questa piccola testimonianza mi sono ricordato un ammonimento di Goethe: “non si va molto lontano quando non si sa dove si va. Il guaio peggiore è quando non si sa dove si sta”.
Nel 1999, dovendo inaugurare il primo anno accademico della Link Campus University (allora of Malta), con il nostro grande amico comune, Guido De Marco – Presidente della Repubblica di Malta – chiedemmo al Presidente emerito di dedicare la sua lectio magistralis alle origini e agli sviluppi dei totalitarismi del secolo breve: il nazismo, il fascismo e il comunismo. Nella sua analisi, Cossiga parlò ai giovani studenti della fragilità delle democrazie e del loro rapporto vitale con la libertà. Alla luce di questa analisi, era chiara la sua definizione di cattolico liberale e l’indicazione dei suoi maestri Tommaso d’Aquino, insieme ad alcuni pensatori cattolici moderni: il beato Antonio Rosmini, il Cardinale oggi Santo, John Henry Newman, Papa Benedetto XVI e alcuni tra i grandi teologi protestanti di quegli anni.
A completare la sua vasta cultura interdisciplinare, vorrei ricordare gli studi di filosofia del diritto e di diritto costituzionale che sviluppò sotto la guida del maestro Giuseppe Capograssi.
Da queste prime righe il lettore potrà constatare che questa mia non è altro che la testimonianza di un amico conosciuto fin dagli anni Cinquanta, i tempi dell’Azione Cattolica, con cui ha condiviso tanti momenti felici, pur sempre accompagnati da un percorso politico quanto mai accidentato e, a volte, anche drammatico. Ma il fulcro della mia testimonianza è negli anni finali del suo mandato di Presidente della Repubblica.
Ritornando per un istante agli interessi e alle curiosità culturali di Cossiga c’è un’area che avemmo in comune come ministri dell’Interno: mi riferisco agli studi strategici internazionali e a quelli sulla sicurezza e sull’intelligence nel tempo presente. Su questi temi si sviluppò non solo una sintonia accademica ma anche un’uniformità operativa quando mi trovai a rapportarmi da ministro dell’Interno con Cossiga Presidente della Repubblica.
I momenti più difficili e tormentati su cui continuo a riflettere e sui quali ancora mi interrogo, restano certamente quelli del rapimento e della uccisione di Aldo Moro e quelli finali del suo settennato. Ad oggi, nonostante siano trascorsi ben dieci anni dalla sua morte, questi due periodi sono i meno sedimentati e poco oggetto di analisi storica condivisa.
Mentre per quello che riguarda il tempo delle “picconate” e dell’impeachment mi sento oggi di testimoniare, sulla questione Aldo Moro mi rimane difficile perché troppo complesso per limitarlo a poche righe. Seppure con lui non abbia avuto mai alcun contrasto e mi sia sempre rivolto a lui con molta franchezza, sulla questione Moro, il suo maestro, ho sperimentato quanto fosse per lui doloroso parlarne. Nel 1992, in presenza di richieste da parte della Commissione parlamentare sui documenti in possesso del ministero sul caso Moro, nominai una ristretta commissione per verificarne l’esistenza negli archivi delle forze dell’ordine e del ministero. Dovetti consegnare i risultati ad un gruppo guidato dal vice presidente Luigi Granelli, redigendo un apposito verbale. Pur riscontrando la sua sofferenza, devo dire che questa non lasciò traccia nel nostro rapporto di amicizia.
Passo ora alla testimonianza su come Cossiga visse il cambiamento della fine del comunismo e come si impegnò con grande coraggio a leggere gli avvenimenti che hanno smentito il semplicismo di un giudizio di semplice vittoria del capitalismo liberista e, di conseguenza, di una fine della storia. Cossiga fu uno dei pochi convinti che in Italia, in Europa e nel mondo si richiedeva alle classi dirigenti di ambedue i blocchi di affrontare i cambiamenti culturali, sociali e politici che avrebbero investito l’emisfero del capitalismo, proprio in conseguenza della caduta del muro di Berlino.
Dal mantenimento della pace, alla competizione coi Paesi emergenti, al formarsi di nuovi equilibri geo-economici e geopolitici, al disfarsi e riorganizzarsi degli Stati dell’ex Patto di Varsavia e quindi alla revisione degli assetti delle istituzioni mondiali e di quelle interne ai singoli Paesi comunisti. Una volta caduto il sistema del socialismo reale, non solo come ideologia ma di potere, non c’era soltanto da espandere e rendere globale e più radicale il capitalismo e da esportare la democrazia dei Paesi industriali. Cossiga, nel silenzio della prima parte del suo settennato, aveva riflettuto proprio sulla fine del comunismo e sulle difese economiche, sociali e politiche costruite per garantire in Europa, e in particolare in Italia – il Paese con il più grande partito comunista, equilibri di potere alle forze di governo e di opposizione.
Vorrei fare qui una breve parentesi che certamente è fuori dalle vulgate della storia della Dc: il partito politico che ha avuto al proprio interno la maggiore insofferenza verso l’equilibrio allora esistente è stata proprio la Dc che, a prima vista, avrebbe potuto trarre la maggiore rendita di posizione. Il dibattito sull’andare oltre è stato sempre presente nella vita del partito, da De Gasperi a Moro.
Cossiga intuì che a rendere più urgenti e necessari i cambiamenti istituzionali e politici fosse l’avanzare della rivoluzione digitale che avrebbe messo in crisi le forme di democrazia rappresentativa, imponendo di sostenere la globalizzazione, il capitalismo finanziario, il determinismo dell’algoritmo e dei modelli.
Cossiga era certo che la maggioranza delle forze politiche pensava che bastasse cambiare subito nome e segni dei partiti storici per poter mantenere, senza nulla mutare, gli assetti politici esistenti. Contro questa area di continuità, Cossiga riteneva bisognasse alzare la voce e usare il piccone per essere ascoltato e demolire l’esistente.
Gli avvenimenti precipitarono con il crollo del muro di Berlino, dei regimi comunisti nei Paesi satelliti e del mondo bipolare: al centro della comunicazione vi erano la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, e l’immagine del presidente Gorbaciov e di sua moglie che scendono dall’aereo che li riporta a Mosca, il 19 agosto 1991, dopo il fallito colpo di stato.
Non posso non sottolineare che la mia amicizia con Cossiga copre la gran parte della sua straordinaria vita. Nasce agli inizi degli anni Cinquanta quando ero impegnato nella sede centrale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), all’Ufficio Studenti. Sono gli ultimi mesi di presidenza di Carlo Carretto e l’intero periodo di Mario Rossi, il giovane medico del Polesine. Cossiga è un dirigente dell’Azione Cattolica della diocesi di Sassari, impegnato poi nella Fuci e nei Laureati Cattolici e nella vita politica, a partire delle elezioni del 1958. Nel contrasto tra Luigi Gedda, Carretto e Rossi si era consolidato il rapporto tra la Giac, la Fuci e i Laureati Cattolici. Gli storici dei movimenti cattolici si sono molto interessati alla vicende della Fuci e del Laureati; di queste ultime erano parte Giulio Andreotti, Aldo Moro e Giovanbattista Montini. La Gioventù Cattolica era molto meno impegnata nella vita della DC, lo scontro con Gedda era culturale e sociale. Quando, nel 1954, viene destituita tutta la dirigenza della Giac, per intervento del Santo Uffizio, la notizia viene commentata solo da alcuni grandi giornalisti. Eppure la Giac era una comunità che comprendeva uomini di notevole spessore culturale, a partire da Pietro Phanner, Umberto Eco, Emanuele Milano, Dino De Poli, Wladimiro Dorigo, Michele Lacalamita, Luciano Tavazza, Antonio Graziani e don Arturo Paoli. L’unico rappresentante politico era il vice presidente, Emilio Colombo. Erano straordinarie personalità che hanno lasciato un segno nella storia culturale e civile del Paese. Sotto la presidenza di Rossi, la GIAC cambiò la sua struttura con la nascita dei movimenti degli studenti, dei lavoratori e dei coltivatori che divennero una delle ragioni dell’allontanamento di tutta la dirigenza.
A me fu chiesto di collaborare ad organizzare il movimento nelle scuole cattoliche e di impegnarmi a dar vita a una Scuola nazionale del Movimento studenti, a cui contribuirono tutti i dirigenti del movimento, compreso Vincenzo Saba, grande amico di Cossiga (tanto da chiedergli di fare da padrino di battesimo a sua figlia Gavina) e un grande vescovo, monsignor Emilio Guano, assistente dei Laureati Cattolici. La scuola del movimento studenti, nel dicembre del 1953, fu l’occasione per conoscere e stabilire un rapporto d’amicizia con Cossiga tramite proprio Vincenzo Saba.
Dopo qualche anno, quando ero capo della segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, presieduto da Giulio Pastore, incontrai più volte Cossiga per discutere dell’elaborazione del primo Piano di Rinascita della Sardegna. In quel momento, Paolo Dettori era presidente della Regione e Pietrino Soddu era l’assessore al Piano. Tutti e due erano di Sassari e in Sardegna era già scoppiato lo scontro politico tra i cosiddetti giovani turchi, organizzati da Cossiga, e i grandi popolari, non solo di Sassari (per tutti Antonio Segni) ma di Cagliari (Antonio Maxia, Efisio Corrias, Lucio Abis) e di Olbia (Salvatore Mannironi).
I giovani turchi avevano una grande vivacità culturale e coraggio politico tanto da porre ultimati ad Antonio Segni. Celestino Segni, il primogenito di Antonio Segni, faceva parte dei giovani turchi! Per Cossiga iniziavano gli anni della crescita di responsabilità politiche e di governo: consigliere di Moro in questioni di estrema riservatezza, sottosegretario, ministro e poi Presidente del Senato e, infine, Presidente della Repubblica. Nessun politico italiano ha percorso una così rapida crescita di responsabilità e di successi e, al tempo stesso, di grandissime amarezze e dure lotte. Nella formazione del Governo di Mariano Rumor del 1972, fu proposto, dai suoi amici della Base, come Ministro della Funzione Pubblica, ma la sua nomina incontrò il veto di Eugenio Cefis per il sostegno dato, insieme a Stefano Siglienti e a Beniamino Andreatta, rispettivamente Presidente e Consigliere dell’Imi, al progetto del polo chimico di Porto Torres.
Il giorno dopo la formazione del Governo, Cossiga mi chiamò a brindare coi giornalisti, alla bouvette della Camera, per la mancata nomina a ministro. Si era chiusa una porta ma era convinto che si sarebbe aperto un portone. Infatti si susseguirono: ruoli politici crescenti nel governo Rumor, il sottosegretariato alla Difesa, ministro della Funzione Pubblica e, infine, ministro dell’Interno, dove si trovò a gestire la tragedia dell’uccisione di Moro e da cui si dimise appena scoperto il cadavere. Queste dimissioni fecero pensare a un ritiro dalla politica. Ma non passò molto tempo e Sandro Pertini gli diede l’incarico di formare, in sequenza, due Governi.
Mi chiamò a far parte del suo Governo come ministro e mi fece partecipare, a Palazzo Chigi, alle riunioni della sua “squadra di sardi”, tra i quali il cugino Sergio Berlinguer e Luigi Zanda. Fu un periodo molto intenso, sia sul versante interno che su quello internazionale, in cui riuscì a stabilire una difficile intesa con i socialisti, in specie con Bettino Craxi e Giuliano Amato, nonostante i crescenti contrasti tra i due partiti. La decisione sulla installazione dei missili a corto raggio nel nostro Paese fu presa con una liturgia attenta a tutti minimi particolari, non ultima quella dell’isolamento dell’area di Palazzo Chigi durante la seduta del Consiglio dei Ministri impegnata nella decisione, cosa usuale nei governi dei Paesi anglosassoni.
La campagna elettorale del 1983 segnò il massimo della tensione tra De Mita e Craxi e portò ad una perdita di voti alla Dcdel 6%; cosa che spinse De Mita a proporre la disponibilità immediata della Dc a indicare al Presidente della Repubblica il nome di Craxi per la formazione del governo. Cossiga fu indicato dalla Dc come Presidente del Senato, garantendo in questo modo al Governo Craxi una navigazione protetta. Allo scadere del mandato di Pertini, De Mita, con la proposta di Cossiga, mostrò non solo un’immagine di forza e di prestigio ma anche di affidabilità non solo per i socialisti ma anche per i comunisti. Un’operazione che manifestò tutte le capacità di “manovra politico-parlamentare” del segretario della Dc.
Nei primi quattro anni di presidenza, Cossiga si attenne a una condotta strettamente istituzionale senza molti interventi e comunque sempre rispettosi della prassi costituzionale. Era succeduto a Pertini e il contrasto fu evidente, specie quando la situazione dei Paesi del Patto di Varsavia cominciava a manifestare i segni della disgregazione. La presenza a Roma del Papa polacco, Giovanni Paolo II, e le sue visite in Polonia, alimentavano la convinzione dei cittadini dei Paesi comunisti che i loro regimi non sarebbero stati in grado di reggere al vento della libertà.
Nelle poche volte che lo incontrai in quei giorni, Cossiga mi manifestò la sua opinione che l’Urss non avrebbe potuto sostenere la spesa della competizione militare con gli Stati Uniti e con la Nato. La decisione della installazione dei missili a corta gittata in Italia e in Europa sarebbe stato un elemento di accelerazione del dissolvimento dell’Urss. Non pochi in occidente e negli stessi circoli diplomatici della Santa Sede avevano una convinzione opposta, ritenendo che il cammino fosse ancora lungo e che si sarebbe dovuto continuare a convivere con il mondo comunista.
Molto interessante è rileggere le cronache della visita di Gorbaciov a Roma dal 29 novembre al 1 dicembre 1989, quando era già caduto il muro di Berlino. L’accoglienza a Gorbaciov veniva espressa con esagerata enfasi per un personaggio in grande declino a Mosca. Anche nei circoli di Governo venivano rilevate opinioni divergenti tra il Presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e l’ambasciatore a Mosca, Sergio Romano.
Queste diverse posizioni rendevano evidente, a giudizio di Cossiga, non solo il ritardo con cui si percepiva la crisi galoppante dell’Unione Sovietica ma anche la mancanza di idee su come cambiare l’assetto istituzionale, dove la presenza del più grande partito comunista fuori dall’Unione Sovietica aveva portato alla stesura del Titolo V della Costituzione, che avrebbe reso sempre più difficile governare nell’incombente era digitale e globale. Per Cossiga la Dc non aveva ancora preso coscienza su cosa e su come cambiare per affrontare il tempo nuovo e, in questa situazione, aveva pensato alla necessità di un gesto forte per indicare al Paese che si era di fronte a un mutamento radicale, chiamando gli italiani a un voto politico nell’immediato. La prima volta che me ne parlò fu subito dopo la visita di Gorbaciov.
Nell’autunno del 1992, raccontai a Cossiga, Presidente emerito, che in quei giorni, quando era già scoppiata la vicenda “Mani pulite”, avevo invitato a casa mia, per un caffè, Mino Martinazzoli, divenuto da pochi giorni Segretario della DC, insieme al Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, al Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri, Domenico Pisani e al mio ex Capo di Gabinetto, Raffaele Lauro. Poiché Martinazzoli mostrava indifferenza allo scenario che gli veniva disegnato, il generale Pisani gli chiese se per caso avesse capito che di lì a un anno la Dc non sarebbe più esistita. Non fu una mia interpretazione della realtà. Nel 2004, Cossiga, nella prefazione ad un mio libro “Un irregolare nel Palazzo” scrisse “Egli (Scotti) fu, grazie anche alla azione informativa e alla analisi compiuta da Vincenzo Parisi e dai suoi uomini (è ormai venuto il momento di dirlo!) il primo che comprese che stava per scatenarsi la bufera di ‘Mani Pulite’ e che vi era il pericolo che si tentasse, come poi infatti accadde!, un vero e proprio ‘golpe istituzionale per via giudiziaria’ contro la prima Repubblica”.
Torniamo indietro: dopo il Congresso della Dc del 1989, lasciai la vice segreteria del partito per candidarmi a Presidente del gruppo parlamentare alla Camera, succedendo a Martinazzoli. La situazione politica parlamentare era difficilissima: alla fine di ogni seduta pomeridiana si ascoltavano le “catilinarie” dei radicali e di Oscar Luigi Scalfaro contro le esternazioni di Cossiga. Era molto difficile la posizione del Presidente del Gruppo democristiano, anche perché cresceva l’opposizione al Presidente della Repubblica.
Dopo quella fase iniziale delle esternazioni, la mia repentina nomina a ministro dell’Interno, dopo le dimissioni di Antonio Gava colpito da un ictus, mi consentì di seguire molto da vicino quella fase convulsa della politica e della vita di Cossiga. Ricordo che la mattina del 15 ottobre del 1990 fui svegliato da una telefonata del Presidente della Repubblica che mi informava che, nel pomeriggio, avrebbe firmato il decreto per la mia nomina a ministro dell’Interno e che, l’indomani, ci saremmo incontrati al Quirinale per il giuramento. Da quel momento ero tenuto a riferire sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica, in alcuni casi anche con la presenza dei capi delle tre forze di polizia. Per me erano giornate di particolari tensioni, soprattutto per l’intrecciarsi delle stragi mafiose con il pressante lavoro legislativo, necessario a offrire ai responsabili delle Istituzioni, politici, magistrati, uomini della polizia, dei carabinieri e della Guardia di Finanza, strumenti e organizzazioni (DIA e DNA) adeguate alla guerra alla mafia. Lavoro che venne affrontato con i capi delle forze dell’ordine e dell’allora servizio interno e con i giuristi del Viminale e del Ministero di Grazia e Giustizia, sempre in sintonia con il ministro Claudio Martelli e Giovanni Falcone.
Vorrei però aggiungere una testimonianza sul mio rapporto con Cossiga in tema di legislazione antimafia e della sua legittimità rispetto alla Costituzione. Non è un mistero che sia io che Martelli eravamo attaccati su quasi tutti i numerosi provvedimenti e in modo particolare su tre di questi: l’istituzione della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) e della Dna (Direzione Nazionale Antimafia), il decreto legge 8 giugno 1992, che fu giudicato incostituzionale in Commissione al Senato (prima della uccisione di Paolo Borsellino) e i provvedimenti contro il condizionamento mafioso delle amministrazioni locali. Come è prassi costituzionale, il Governo può sentire il parere degli uffici del Quirinale su questioni che poi saranno vagliate dal Presidente prima della presentazione al Parlamento del disegno di legge, dopo l’approvazione e prima della promulgazione. Cossiga fu sempre un lettore rigoroso e attento dei provvedimenti e, in alcuni casi, ritenne di esprimere un suo parere con qualche esternazione. Parlando del lavoro legislativo fatto, nella citata prefazione al mio libro, Cossiga scrisse ” Avendo come consiglieri Giovanni Falcone e Vincenzo Parisi, Scotti diede una svolta quasi ai limiti della “legalità formale”, sia sul piano legislativo sia su quello organizzativo, alla lotta alla mafia. Sua l’idea di istituire un centro interforze di “intelligence” e di coordinamento investigativo antimafia”.
Con lui e con l’assenso del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti decidemmo di dar vita a una Conferenza Nazionale Annuale sulla Legalità alla quale invitare tutte le Istituzioni dello Stato a ciò deputate e i Rappresentanti più significativi del pluralismo sociale e religioso, per valutare – tutti insieme – l’andamento e i risultati della lotta alla mafia. Giovanni Paolo II ci concesse un’udienza in Vaticano per esprimere il suo pensiero sulla lotta alla mafia e alla criminalità. La prima e unica sessione fu aperta proprio dal Presidente della Repubblica attento, anche per questo fenomeno, su quali sarebbero potuti essere gli impatti del nuovo contesto internazionale economico e politico, conseguente alla fine dell’Unione Sovietica, sulla corruzione e sulle reti criminali internazionali.
È ancora troppo presto per poter affrontare la lettura della complessa esistenza di Cossiga. Manca da analizzare ancora un folto materiale archivistico tra cui anche alcuni testi segretati e relativi alle vicende ancora controverse. C’è tuttavia una valutazione che comincia ad essere condivisa: che una caratteristica di Cossiga fosse quella di saper cogliere a fondo le evoluzioni delle vicende politiche.
Come ho sottolineato, Cossiga è stato protagonista di uno snodo della vita sociale e politica del contesto europeo e mondiale nel quale le vicende italiane si sono svolte. A differenza del suo maestro Moro non ha lasciato un’ordinata traccia scritta della sua visione e delle sue idee, quasi una bussola per la classe dirigente. Era un uomo politico il cui pensiero va ricostruito attraverso lo scritto ma soprattutto attraverso le sue azioni e i suoi gesti concreti. Per questo vorrei riprendere il filo del suo ragionamento sul declino e sulla sparizione del comunismo e sulle conseguenze sulla vita sociale e politica del Europa e dell’Italia. Abbiamo già ricordato la spiegazione del suo ricorso alle picconate. Non è una novità che fosse un’impaziente e quindi reagisse immediatamente a una mancata risposta. Cossiga intravide, nel caotico precipitare della fine del comunismo, ciò che la classe dirigente avrebbe dovuto fare al cadere dei nodi di una democrazia incompiuta e di un’economia frenata da una quantità di vincoli amministrativi.
La globalizzazione e la società digitale richiedevano una decisione politica rapida ed efficiente, necessaria a sostenere un sistema produttivo e sociale in fase di trasformazione. Nella competitività crescente della globalizzazione, l’efficacia veniva sempre più misurata non solo dalla produttività di una singola unità ma dall’efficienza del sistema complessivo. La stabilità e la rapidità delle decisioni di Governo richiedevano il superamento di un sistema elettorale proporzionale puro e l’attribuzione di un proprio spazio normativo dell’esecutivo, senza dover “violentare” la Costituzione con un continuo ricorso a decreti di urgenza in mancanza dei requisiti.
Di fronte a un sostanziale rifiuto di cambiare la Costituzione, Cossiga mandò un suo Messaggio alle Camere. La maggioranza dei Parlamentari erano stati presi di sorpresa dalla sparizione dei vertici dell’Urss e erano contrari a cambiamenti costituzionali.
Cossiga divenne furibondo, non capiva il perché i deputati non avessero almeno letto e risposto al suo Messaggio. Tra essi, tra l’altro, si trovavano la maggioranza dei suoi vecchi amici di partito che l’avevano eletto. Per Cossiga era troppo tardi: presto gli sarebbero caduti sulla testa i sassi della casa in dissoluzione. I fatti si sono preoccupati di dimostrare che, persa quell’occasione, non si sarebbe più riuscito ad approvare una modifica costituzionale anche quando fosse stata votata in Parlamento. Infatti, succederà che gli stessi Parlamentari che approveranno la modifica, poi, nel voto referendario di conferma, concorreranno a bocciarla.
Quando nella vita politica si perde l’occasione temporale giusta, i percorsi diventano sempre più difficili da portare a compimento, specie quando i disegni politici sono deboli o inesistenti. Qualche anno dopo Cossiga concluderà così la prefazione a un mio libro: <<mi si consenta una notazione personale, io debbo essere grato a Vincenzo Scotti non solo per la sua amicizia e per il suo affetto personale ma per aver compreso e plaudito al mio Messaggio Presidenziale al Parlamento sullo stato delle istituzioni e sulle necessità di una loro riforma. A tutti sono grato. Ma in modo particolare a Vincenzo Scotti che compì non solo un atto di stima e di amicizia nei miei confronti ma un autentico atto di coraggio, dato l’atteggiamento ostile delle gerarchie del suo partito”
Ma Cossiga non si fermò nella sua battaglia, cercando disperatamente una via per mettere in moto un processo effettivo di cambiamento. E rimase attento agli spazi che si potevano presentare. Ci fu un momento importante, dopo la dissoluzione del comunismo, quando – nell’aprile del 1990 – il Governo Andreotti entrò in crisi. Cossiga, nelle more delle consultazioni al Quirinale, rese evidente la sua convinzione che, sia pure con ritardo, quello fosse il momento di sciogliere le Camere e andare alle elezioni. Un tardo pomeriggio di aprile mi convocò per chiedermi se l’ufficio elettorale della Direzione competente diretto da Menna, figlio del Sindaco di Salerno, fosse in grado di organizzare lo svolgimento delle elezioni politiche prima della fine di luglio, nel caso il Ministro dell’Interno avesse potuto garantire un governo per il brevissimo tempo necessario.
Erano presenti due testimoni: il prefetto Parisi e il prefetto Lauro. Evidentemente avevo bisogno di 24 ore per consultare gli uffici e dargli una precisa e documentata risposta. Mi chiese poi di mantenere la estrema riservatezza e di tornare il più rapidamente possibile. La verifica fu positiva: si potevano fare le elezioni nel mese di luglio. Cossiga non capiva perché il Presidente del Consiglio e i due partiti PSI e Dc, oltre al Pds, fossero nettamente contrari. Anche a me sembrava strano non avviare subito, con un nuovo governo, una stagione di rapide riforme.
Cossiga insisteva sulla sua linea anche quando ormai la situazione politica interna stava degenerando. La rendita di posizione dei cosiddetti partiti democratici diventava non più accettabile. La classe dirigente che pure aveva portato l’Italia a diventare la quinta potenza economica del mondo, mostrava stranamente una visione corta. Solo se nelle ore conseguenti alla caduta del muro di Berlino ci fosse stata la decisione di una elezione anticipata e la proposta di una assemblea costituente si sarebbe potuto governare il cambiamento.
Cresceva nel Paese l’insofferenza per l’assenza di cambiamento politico che trovava nell’iniziativa referendaria di Mario Segni e nella lotta giudiziaria di “Mani pulite” sempre più consenso verso la distruzione dei partiti storici che avrebbe portato anche alla fine della Prima repubblica. Di questo pericolo e dello scontro violento con la mafia parlai alla Camera a Commissioni riunite Camera – Senato nell’inizio primavera del 1992.
Nessuno può dire cosa sarebbe potuto succedere se si fosse andato alle elezioni e se si fosse aperta una stagione di riforme di cui parlava Cossiga.
Questo era Francesco Cossiga: era presbite e vedeva lontano!