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Da desiderabile all’essere desiderata. Il futuro della cultura

Siamo sicuri che “accesso garantito” sia più efficace, e più democratico dell’accesso esclusivo? In altri termini, siamo sicuri che la marea di visitatori che in tempi pre-Covid occupavano gratuitamente i nostri musei sia una risposta educativa e socialmente più efficace dell’ingresso percepito come “riservato a pochi eletti”? L’analisi di Stefano Monti, Partner Monti&Taft, docente di Management delle Organizzazioni Culturali alla Pontificia Università Gregoriana

Una delle sfide più importanti della cultura dei prossimi anni sarà passare dall’essere socialmente “desiderabile” all’essere socialmente “desiderata”. Sarà un passaggio estremamente importante che dovrà coinvolgere, primi tra tutti, gli uomini di cultura e chi la cultura la governa.

Per descrivere meglio il perimetro di questa riflessione, può essere utile provare a fare qualche confronto tra il mondo della cultura e, ad esempio, il mondo della “finanza”.

Per quanto possano sembrare distanti, queste due dimensioni della nostra società, non solo presentano numerosissimi punti di contatto (si pensi anche soltanto ai collezionisti e al ruolo sempre più importante che ha avuto l’arte come asset di investimento negli ultimi decenni), ma vivono anche un momento in cui condividono alcune “esigenze”, prima fra tutte, quella di creare “nuove generazioni” di “appassionati”.

Così come la cultura, infatti, anche la finanza necessita di “nuovi” seguaci, persone che abbiano familiarità con le dimensioni tipiche del mondo finanziario e che soprattutto, adottino un “ruolo attivo”, nel settore.

Comparare dunque l’approccio che rispettivamente, cultura e finanza adottano con lo scopo di “invogliare” sempre più “adepti” può fornire degli spunti utili sia ad un settore che all’altro.

In questo senso, è importante sottolineare come il settore finanziario si sia prevalentemente concentrato sul tema dell’educazione finanziaria, sia con progetti che coinvolgono le scuole (Banca d’Italia o il comitato Edufin del Mef) sia con progetti e corsi realizzati ad-hoc da parte di alcuni tra i più importanti istituti di credito del nostro Paese.

Accanto ad essi, sono poi nati progetti di “divulgazione” e di informazione finanziaria anche sui canali social, e i risultati sono piuttosto evidenti, come il caso di alcuni canali YouTube dedicati all’informazione finanziaria che contano più di 160 mila iscritti.

Stando ad una recente ricerca sul tema, condotta da Giorgini ed Isaia, i cui risultati sono stati anticipati sulla stampa nazionale, circa il 60% degli intervistati (tutti millennials e Gen-Z), ha appreso in modo autonomo i fondamenti di educazione finanziaria, e numerosi sono coloro che si dichiarano inclini a corsi di formazione sul tema, anche “a pagamento”.

Guardandosi intorno, tuttavia, non mancano progetti di educazione finanziaria gratuiti, che offrono la possibilità di apprendere le dimensioni di base dell’educazione finanziaria e agevolare in questo modo cittadini di ogni reddito, sesso ed età ad entrare in contatto con il mondo degli investimenti.

Eppure il mondo della “finanza”, o meglio detto degli investimenti, proietta una dimensione “esclusiva”, e promette uno status ambito da molti, come lasciano supporre i circa 1,8 milioni di “seguaci” ad un gruppo Instagram come quello di Rich Russian Kids, in cui ragazzi più o meno adolescenti producono contenuti audio e video in cui ostentano ricchezza.

Anche la cultura necessita di nuovi seguaci, di nuovi collezionisti, ma anche di nuovi appassionati, di nuovi utenti nei musei, nelle gallerie, nei teatri e nelle biblioteche. Anche la cultura ha bisogno di neofiti disposti ad essere introdotti alle conoscenze di base al fine di poter poi procedere, in modo autonomo, alla ricerca di conoscenze più approfondite.

La differenza con cui tuttavia, i due mondi si “comunicano”, non potrebbe essere più grande: da un lato la proiezione di un “mondo esclusivo”, e pertanto “automaticamente” desiderato socialmente, dall’altro un mondo centrato “sul bene pubblico”, sulla “gratuità” e sul diritto.

Il confronto tra i due temi presenta infatti risultati controintuitivi: da un lato c’è un mondo fatto di numeri, investimenti, applicazioni di formule di natura matematica, elementi di diritto, conoscenza dei meccanismi internazionali.

Dall’altro c’è un mondo che racchiude le migliori espressioni estetiche della storia della nostra umanità, e che coinvolge tutte le rappresentazioni della nostra persona.

Da un lato un mondo “complesso”, che “mostrandosi esclusivo”, si sforza (per propria stessa necessità) di coinvolgere quante più persone possibili, fornendo strumenti efficaci espressi con un linguaggio spesso comprensibile anche ai non addetti ai lavori.

Dall’altro un mondo altrettanto complesso ma di gran lunga meno “noioso”, che, per quanto si sforzi, non è ancora riuscito ad intercettare realmente il pubblico cui vorrebbe rivolgersi.

In tutto questo, sullo sfondo, le differenze tra i due settori sono ancora più evidenti se si guarda alle recenti “politiche di incentivo della domanda”, che avranno sicuramente un effetto sul breve termine, ma che forse, in un’epoca come la nostra, in cui ciò che si desidera maggiormente è l’esclusività, potranno risultare meno efficaci di altre tipologie di attività.

A giudicare dai risultati che mondo finanziario e mondo culturale hanno riscosso negli ultimi anni, una politica che affermi la cultura come “il più alto livello di status” (condizione che, tra l’altro, trova anche numerosi riscontri nella realtà), potrebbe forse risultare più d’appeal della retorica del “bene pubblico”, se associata, proprio come fa il settore finanziario, ad azioni attraverso le quali avvicinare, anche a titolo gratuito, le persone alla cultura, fornendo loro gli alfabeti necessari per poterne decifrare i contenuti.

Malgrado questa riflessione confligga con molte delle attività che vengono poste in essere dai musei per potenziare il rapporto con la cittadinanza e con i visitatori, siamo sicuri che una tale scelta non possa ugualmente portare ai risultati sperati?

Siamo sicuri che “accesso garantito” sia più efficace, e più democratico dell’accesso esclusivo?

In altri termini, siamo sicuri che la marea di visitatori che in tempi pre-Covid occupavano gratuitamente i nostri musei sia una risposta educativa e socialmente più efficace dell’ingresso percepito come “riservato a pochi eletti”?

In fondo, la cultura per decenni (e ancora oggi questa tendenza non è del tutto scomparsa) ha adottato uno stile “erudito”, ed “eletto” per sua naturale vocazione.

Erudizione però, è barriera all’ingresso che nessuno può superare se non a fronte di grandi sforzi. Esclusività è invece una “proiezione” che però non crei “distanza e distacco”, ma voglia di partecipare.

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