È uscito il volume di Durs Grünbein, “Il bosco bianco. Poesie e altri scritti” (Mimesis/Discorso Figura), traduzione e cura di Rosalba Maletta, con una nota di Elio Franzini. Il pubblico italiano ha a disposizione un altro volume di un poeta tra le voci più innovative della poesia in Europa
Nato a Dresda (insieme a Varsavia, una delle due città rase al suolo dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale), nel 1962, allora Germania Est, deciso sin da giovane a fare il poeta, Durs Grünbein è una sorta di incontro, per noi italiani, tra la poesia di Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni e Alda Merini.
La “sua lingua scabra e asciutta” (Rosalba Maletta) è un codice che ci rimanda non solo a una lunga tradizione della lirica, soprattutto novecentesca, ma segnatamente alle inquadrature care al cinema degli anni Venti e Trenta.
Ad esempio, il suo rispetto degli spazi bianchi, è centrale nella costruzione del testo poetico e fa bene Maletta, germanista e comparatista, nella sua articolata e chiara postfazione esegetica, a sottolineare il bilanciamento tra la parola stampata e gli spazi bianchi che la circondano, la accarezzano, la proteggono. A noi, questa cura liturgica degli spazi bianchi, non può non rinviarci a Giuseppe Ungaretti, poeta visivo e filmico tra i primi del Novecento. Una poesia attenta alla scenografia, umana o naturale, che gli occhi di Grünbein, come una cinepresa, inquadra e poi monta in micro/macro sequenze. Si prenda l’omaggio, affettuoso sino al maniacale, per Milano, da Grünbein eletta a sua seconda patria. Alla capitale lombarda dedica la lirica Il bosco bianco, costrutto linguistico dalla forte valenza metaforica, alludente al complesso gotico architettonico del Duomo.
Timpani ci si piantarono dinanzi,
quando mettemmo piede nella radura.
Sopra la Fabbrica delle mille torrette
Era un azzurro freddo a perdita d’occhio
(…)
Il volume alterna sezioni in poesia e parti di saggistica. “Il saggio centrale del libro è dedicato a Milano. I milanesi sono ovviamente ‘abituati’ a Milano e dunque spesso non ne colgono pienamente le peculiarità che certo la rendono un ‘unicum’ nel panorama nazionale. Guardandola con altri occhi, anche cinematografici, Grünbein permette di vederla meglio, e di meglio inserirla in una nella storia europea, di ricostruire i luoghi e le tradizioni” (Elio Franzini).
Milano, in realtà, veniva scoperta dal giovane Grünbein, nei cineclub socialisti tedeschi d’oltrecortina negli anni Settanta, grazie alle sequenze di Cronaca di un amore (1950) e La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. (Come mai dimentica Miracolo a Milano, 1951, di Zavattini e De Sica?).
L’amore di Grünbein per l’Italia lo conduce, anche, fuori dalla Lombardia, quasi in un disincantato vagare goethiano, nel quale fonde parti di città e i rispettivi nomi, in un evidente esempio di montaggio in dissolvenza incrociata. Valga, in guisa esemplare, la splendida Corso Trieste.
Durs Grünbein
Corso Trieste
A Firenze annotta nella via Roma
A Roma piazza Venezia prende vita.
A Venezia nebbie si insinuano lungo viale Trieste.
Tutte le città sognano l’una dell’altra.
Si chiamano con il nome di un brand e l’eco
riecheggia negli stretti corridoi delle strade.
Via Roma appartiene alle strade più buie
di Firenze, ricca di storie nere.
Anche in estate le ombre là ristagnano, rimuginano
i palazzi cittadini sopra antichi intrighi familiari.
Roma invece è senza vergogna. A piazza Venezia
floscia pende dal balcone la bandiera del Paese.
Sopra l’Adriatico, dalla parte di Trieste
il cielo si è rischiarato. A Venezia, su piazzale Roma,
i pendolari sciamano dai treni del mattino.
Le città attendono ai loro affari.
Adesso non ci sono che questi. Nessuna più si immischia
nelle faccende delle altre.
A Roma uno strider di freni su corso Trieste.
(da Durs Grünbein, Il bosco bianco. Poesie a altri scritti, nota introduttiva di Elio Franzini, a cura di Rosalba Maletta-Mimesis/Discorso Figura, 2020, Milano).
(Foto: Durs Grünbein)