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Perché famiglie e imprese sono più vulnerabili. Chimenti legge il report Bankitalia

L’ultimo rapporto 2021 di Banca d’Italia fotografa gli effetti della pandemia Covid-19 su famiglie e imprese. Il commento di Stanislao Chimenti, docente di Diritto commerciale e partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr & Gallagher

Il primo rapporto del 2021 di Banca d’Italia sulla Stabilità finanziaria dell’Italia offre numerosi spunti di riflessione sugli effetti che la pandemia sta producendo sull’intero sistema creditizio del Paese.

Seguendo lo schema di analisi della Banca Centrale, è utile una distinzione preliminare: un conto è l’indebitamento delle famiglie, altro conto quello delle imprese.

Secondo il rapporto della Banca d’Italia, se è vero che la disuguaglianza dei redditi è aumentata, il sistema nel complesso starebbe tenendo, nel senso che la capacità di rimborso delle famiglie sarebbe nel complesso buona, e ciò per effetto dei bassi tassi di interesse, delle moratorie e delle altre misure di sostegno. Si tratta di un profilo certamente condivisibile, tuttavia gli effetti macroeconomici più rilevanti sembrano connessi a un altro profilo e cioè al fatto che le famiglie italiane hanno evitato, per quanto possibile, di ricorrere a un eccessivo indebitamento. In tal senso, blocco dei licenziamenti, sospensione delle cartelle e moratorie dei mutui hanno rappresentato un indubbio sostegno alla liquidità nel senso che queste misure hanno ridotto, almeno temporaneamente, la necessità di uscite immediate, con ciò rendendo forse meno impellente, almeno per talune famiglie, il ricorso a ulteriore credito.

Parzialmente diverso il discorso per quanto riguarda le imprese. Qui il rapporto della Banca d’Italia pare orientato ad auspicare una politica di ulteriore espansione monetaria e di sostegno alla liquidità delle imprese, con particolare riferimento a quelle che sono state più direttamente incise dalla pandemia. Anche in questo caso il principio generale appare condivisibile; tuttavia talune considerazioni si impongono. Contrariamente a quello delle famiglie, il livello di indebitamento delle imprese si è considerevolmente innalzato per effetto della pandemia. In questo caso, il blocco delle cartelle esattoriale e le moratorie sui mutui non hanno svolto un ruolo rilevante giacché per molte imprese il reddito si è del tutto azzerato e il nuovo debito è stato destinato non già a investimenti e sviluppo, bensì al pagamento di oneri correnti, bruciando cassa necessaria alla stessa sopravvivenza dell’impresa.

A ben vedere, dunque, le moratorie in questione non hanno fatto altro che celare il problema, “congelarlo” per il tempo, necessariamente limitato, di efficacia della misura. Una volta rimossi tali blocchi, molte imprese si troveranno inevitabilmente in stato di insolvenza, giacché, da un lato non potranno ricorrere a ulteriore indebitamento per fare fronte agli oneri fiscali e creditizi, e dall’altro non avranno potuto approntare le misure di adattamento alla crisi necessarie a sopravvivere su un mercato drammaticamente e irreversibilmente cambiato.

Del resto, di queste problematiche la stessa Banca d’Italia pare essere (com’è ovvio) pienamente avvertita nel momento in cui sofferma l’analisi sul rischio sistemico connesso a un deterioramento generalizzato del merito creditizio. Sono ben noti i meccanismi, solo apparentemente paradossali, secondo cui possono innescarsi fenomeni di selezione avversa, tali per cui, al fine di evitare il collasso di aziende o addirittura interi comparti di grande rilievo, si continua a erogare credito a imprese che, in effetti, non presentano i requisiti di idoneità alla tempestiva restituzione di quanto ricevuto.

Ovviamente la Banca Centrale analizza il problema dall’angolo prospettico della tenuta sistemica: un’eccessiva concentrazione di crediti deteriorati nei bilanci delle banche è eventualità che va evitata il più possibile, uno dei modi più rapidi essendo la dismissione di portafogli di Npl (attività che, non a caso, il rapporto evidenzia essere aumentata nel corso del 2020).

Qui è possibile individuare almeno due ordini di problemi, assai complessi e delicati. Da un punto di vista sistemico, il comparto bancario tende a smobilizzare i crediti deteriorati prima di concedere nuovo credito. L’immissione sul mercato di tali “pacchetti” di Npl, tuttavia, pone questioni non ancora del tutto indagate e forse non debitamente approfondite. In una situazione come quella attuale, il tessuto della piccola e media impresa è più che mai esposto al rischio di infiltrazioni malavitose. Il mercato dei Npl pare da questo punto di vista un segmento altamente interessato dal problema. Un’organizzazione malavitosa fornita di idonei capitali (frutto ovviamente in ipotesi di condotte delittuose) può acquistare un’impresa semplicemente acquistando il suo debito. Basti pensare che divenendo legalmente titolare di certi crediti si possono, ad esempio, governare le procedure di concordato preventivo e di composizione della crisi di impresa. L’imprenditore, che prima aveva come controparte una banca, potrebbe ritrovarsi quale creditore tutt’altro soggetto il quale, in misura assai meno vistosa che con una normale procedura di acquisizione, finirebbe per mettere le mani sulla sua azienda.

Questi aspetti sono stati tempestivamente evidenziati sin dallo scoppio dell’emergenza pandemica; tuttavia l’attenzione si è appuntata prevalentemente sul versante dell’erogazione di credito a tassi usurari ma non si sono apportate modifiche di rilievo alle procedure di acquisto di crediti deteriorati con riferimento, appunto, ai soggetti acquirenti e alle finalità che essi possano perseguire. È allora quanto mai necessario che questo segmento di mercato, che si va sempre più ampliando per effetto della congiuntura macroeconomica in atto, sia presidiato con la massima attenzione nei confronti di operatori che operano nel settore dell’acquisto di crediti deteriorati.

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