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L’azzardo di Hamas e la “guerra degli sfratti”

Se Hamas, la Jihad Islamica Palestinese e i loro sponsor esterni speravano con l’azzardo dei missili di scompaginare le carte sul tavolo della diplomazia mediorientale e di mobilitare un nuovo fronte arabo, unito nella lotta contro Israele, la loro strategia si è dimostrata finora costosamente perdente. L’analisi di Giancarlo Elia Valori

Come sempre, per comprendere ciò che accade in Medio Oriente occorre riavvolgere il filo rosso che lega le grandi questioni sul tappeto, dalle origini ai giorni nostri.

Anche la nuova fiammata di guerra che scuote da una settimana Israele e la Striscia di Gaza per essere correttamente inquadrata ci riporta necessariamente ai tempi della “guerra di indipendenza” di Israele del 1948 e alla successiva “guerra dei sei giorni” del 1967.

Nel 1948 gli ebrei di Palestina vinsero il confronto con i palestinesi, prima, e, poi, con gli eserciti arabi che, il 15 maggio alla proclamazione della nascita dello Stato di Israele, invasero i territori loro assegnati dalle Nazioni Unite solo per essere incredibilmente sconfitti da un’armata di cittadini in armi.

Grazie alla potenza di fuoco moderna e alla professionalità del suo comandante inglese, sir John Glubb “Pascià”, la Legione Araba giordana riuscì a conquistare la Città Vecchia di Gerusalemme e la parte orientale della Città Santa, con il quartiere di Sheikh Jarrah, e a mantenerla sotto il controllo del Regno di Giordania per i successivi 19 anni.

Si parla molto e giustamente dell’esodo al quale vennero costretti 700.000 palestinesi, costretti alla fuga dopo la sconfitta militare. Si è parlato un po’ meno dell’esodo di proporzioni naturalmente meno massicce degli ebrei, costretti a lasciare villaggi e case situati nei territori sottratti con le armi al nascente Stato di Israele.

Tra questi vi erano centinaia di abitanti ebrei che vivevano nel quartiere di Sheikh Jarrah, di Gerusalemme, costretti ad abbandonare le proprie case dalla Legione Araba. Come è ovvio, le abitazioni vennero prontamente occupate da famiglie arabe e la situazione rimase così fino alla guerra del 1967, quando di nuovo Israele inflisse una cocente sconfitta agli eserciti di Giordania, Egitto e Siria, spegnendo definitivamente il sogno arabo- palestinese di “ricacciare gli ebrei in mare”.

Era stato profetico, durante un colloquio segreto nel settembre del 1947 con il diplomatico ebreo (poi ministro degli Esteri di Israele) Abba Eban, il Segretario Generale della Lega Araba, Azzam Pascià, che aveva così ammonito il suo interlocutore: “La politica non è faccenda da accordi sentimentalistici; è il risultato di un confronto tra forze contrastanti. Il problema è vedere se voi, per la creazione di uno Stato Ebraico, siete in grado di mettere in campo più forze di quanto possiamo raccogliere noi per impedirla. Se volete il vostro Stato, comunque, dovete venire a prendervelo”.

Azzam Pascià certamente non prevedeva che la sua ipotesi si sarebbe rivelata tragicamente vera per gli arabi, e gli ebrei si “presero” il loro Stato, nel 1948, e lo ampliarono addirittura nel 1967, conquistando Gerusalemme, il Sinai, la Riva Occidentale del Giordano e l’altipiano del Golan.

Tra le aree riconquistate c’era anche il quartiere di Sheikh Jarrah, interamente abitato da palestinesi, fino a quando, sotto la spinta e il sostegno di organizzazioni della destra israeliana, alcuni discendenti delle famiglie ebree che erano state costrette a lasciare le loro case nel ’48, ne pretesero la restituzione o almeno il pagamento dell’affitto.

Israele è uno Stato di diritto nel quale la Suprema Corte di Giustizia non esita a mettere in stato d’accusa un primo ministro accusato di corruzione e quindi la diatriba sulle case di Sheik Jarrah si è trascinata per anni, con alterne vicende, di fronte ai tribunali finché, qualche settimana fa, la Corte Suprema ha sancito il diritto dei proprietari ebrei di tornare in possesso delle loro abitazioni o di esigere il pagamento degli affitti.

Questa decisione ha provocato incidenti nel quartiere “conteso”, prima tra inquilini e proprietari, poi, tra dimostranti palestinesi ed ebrei in altre aree della Città Santa. Le dimostrazioni si sono fatte via via più estese e violente anche per la contemporanea fine del Ramadan e delle celebrazioni ebraiche per la riconquista di Gerusalemme, finché in questa contesa innescata da una serie di sfratti, si è voluta inserire Hamas, la fazione più estremista della resistenza palestinese che, insieme alla Jihad Islamica Palestinese (JIP), governa dal 2007, la Striscia di Gaza.

Lunedì 10 maggio, mentre a Gerusalemme i manifestanti palestinesi protestavano violentemente sulla spianata delle Moschee, Hamas e la Jihad Islamica palestinese hanno lanciato all’improvviso una salva di missili su Tel Aviv e Gerusalemme, un atto di guerra aperta che non poteva non provocare una durissima risposta israeliana.

Infatti, come era prevedibile, non solo il 90% dei missili lanciati da Gaza è stato intercettato in volo dal sistema di difesa aerea Iron Dome ma l’aviazione e l’artiglieria di Israele hanno cominciato un sistematico bombardamento di obiettivi strategici collocati nella Striscia.

Un atto di guerra, come la decisione di colpire la capitale di uno Stato sovrano, deve necessariamente avere un obiettivo strategico, altrimenti sarebbe un atto insensato concepito da una mente folle.

La tesi che Hamas abbia deciso un intervento così rischioso per solidarietà nei confronti dei “fratelli” arabo-israeliani non regge perché le fazioni estremiste del movimento di resistenza palestinese considerano questi ultimi dei collaborazionisti che accettano addirittura di inviare, partecipando a libere elezioni politiche, propri rappresentanti alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme.

Sappiamo benissimo che le leadership di Hamas e della JIP non sono composte da folli visionari, ma da politici molto furbi che da 14 anni governano i due milioni di abitanti di Gaza con mano ferma e pugno di ferro nei confronti della dissidenza interna e delle fazioni vicine al campo moderato.

Sappiamo anche che da anni Mahmoud Abbas, il successore di Yasser Arafat alla guida del movimento Fatah, rimanda le elezioni nella West Bank, controllata dal suo partito, per paura che Hamas ripeta il successo riportato nelle elezioni di 14 anni fa nella Striscia e assuma il controllo definitivo di tutti i territori sotto amministrazione palestinese.

Alla luce di queste riflessioni, dobbiamo quindi tornare a chiederci quali siano i motivi reali per i quali Hamas e JIP abbiano deciso di aprire un conflitto aperto con un avversario come Israele del quale conoscono benissimo la forza militare e la determinazione politica e che sanno di non poter sconfiggere sul terreno.

In poco più di una settimana, lanciando migliaia di razzi sulle città israeliane allo scopo di provocare stragi indiscriminate, Hamas è riuscita a danneggiare qualche abitazione e a provocare la morte di dieci ebrei.

In risposta a questa aggressione apparentemente senza senso la resistenza palestinese ha subito danni rilevanti: non solo le vittime collaterali dei bombardamenti israeliani superano le duecento unità, ma i colpi mirati dell’aviazione ebraica hanno ucciso decine di militanti di Hamas e della JIP, hanno decapitato l’intelligence dei due gruppi ed eliminato loro importanti esponenti politici e militari e distrutto infrastrutture strategiche come la rete di tunnel sotterranei faticosamente costruita nel corso degli ultimi anni per consentire all’apparato militare palestinese di lavorare in condizioni di assoluta sicurezza.

Finora l’offensiva dei missili è stata un fallimento sul piano militare, mentre sul piano politico non è riuscita neanche a bloccare il dibattito interno israeliano sulla formazione del nuovo governo, dibattito a cui partecipa attivamente anche la rappresentanza politica del 20% di arabo-israeliani.

Se Hamas e JIP hanno deciso di tentare l’azzardo di provocare militarmente Israele in un confronto senza alcuna possibilità di successo, le ragioni vanno probabilmente cercate sullo scacchiere della politica interna al movimento palestinese e sulle sue mosse in politica estera.

Sul fronte interno, appare evidente il tentativo di mobilitare i palestinesi che vivono nei territori occupati o in quelli amministrati da Fatah e di convincerli che la politica pragmatica di Mahmoud Abbas è una politica debole e perdente. Finora il tentativo non è riuscito come si sta spegnendo poco a poco la rivolta degli arabo-palestinesi fomentata dagli emissari di Hamas nella speranza di portare il terrore nelle città come Lod e Ramallah dove arabi ed ebrei hanno trovato sperimentate forme di convivenza pacifica.

Sul piano dei collegamenti internazionali, finora è fallito anche il tentativo, chiaramente ispirato dagli sponsor esterni di Hamas, il Qatar e la Turchia, di sabotare gli “Accordi di Abramo” che, sotto l’egida di Trump e dell’Arabia Saudita, hanno portato alla fine dello scorso anno alla normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme, gli Emirati e il Sudan.

Gli scambi di missili sul cielo della Palestina continuano nel silenzio totale delle cancellerie arabe e, soprattutto, dell’Iran che finora non ha consentito a Hezbollah, che dispone in Libano di un imponente apparato missilistico fornito e controllato dai Pasdaran iraniani, di intervenire militarmente a sostegno dei “fratelli” di Gaza.

Se Hamas, la Jihad Islamica Palestinese e i loro sponsor esterni speravano con l’azzardo dei missili di scompaginare le carte sul tavolo della diplomazia mediorientale e di mobilitare un nuovo fronte arabo, unito nella lotta contro Israele, la loro strategia si è dimostrata finora costosamente perdente.

Ora cominciano a farsi sentire voci di una richiesta di tregua da parte di Gaza: ma si può cominciare una guerra con l’obiettivo strategico di chiedere una tregua?

La crisi dei missili, finora ha messo in imbarazzo gli Stati Uniti, provocando una spaccatura all’interno del partito del presidente Biden, ha dimostrato che l’Europa continua a brillare per la sua assenza sullo scenario internazionale mentre l’Onu continua a balbettare, ma ha anche fatto emergere, nel dibattito al Consiglio di Sicurezza, quello che potrebbe essere un nuovo protagonista nella dialettica mediorientale e cioè la Cina di Xi Jinping, che ha fatto sentire la sua voce di autorevole moderazione in una discussione nella quale gli altri membri permanenti del Consiglio non sono sembrati essere stati in grado di esprimere altro che scontate e inconcludenti formule di invito alla “pacificazione”.

Se la Cina, già presente in alcuni snodi strategici africani, dovesse decidere di far sentire la sua voce, magari in sintonia con quelle dell’Egitto e delle monarchie del Golfo, sui dossier più delicati del confronto arabo-israeliano, allora le prospettive di un percorso di pacificazione si farebbero più concrete di quanto non lascino sperare né le provocazioni avventuriste dell’estremismo palestinese, né le mosse incerte e contraddittorie di una diplomazia americana che, dopo l’innegabile successo degli “accordi di Abramo”, sotto la guida tentennante di Biden e del suo Segretario di Stato Blinken, non sembra aver trovato ancora gli strumenti per tornare a essere protagonista autorevole del processo di pace in Medio Oriente.

(Foto: Flickr)

 

 

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