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Hamas e l’inutile guerra degli undici giorni

Un attacco missilistico contro la capitale di uno Stato sovrano è indubbiamente un atto di guerra: qual è stato l’obiettivo strategico di Hamas nel momento in cui ha deciso di sferrare un’offensiva militare contro il suo nemico storico? Al termine della “guerra degli undici giorni”, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese escono fortemente indebolite sul piano militare e politico da un’avventura militare senza senso e senza prospettive

Nella storia del conflitto arabo-israeliano (e anche israelo-palestinese) che si avvia verso il settantacinquesimo anno di età, è rimasta famosa la guerra del 1967, nota a tutti come “la guerra dei sei giorni”, che prese avvio quando l’esercito israeliano dopo una serie di provocazioni del leader egiziano  , che era arrivato a chiudere con le sue navi da guerra lo stretto di Tiran e a espellere le “forze di Pace” delle Nazioni Unite dalla penisola del Sinai, sferrò il 6 giugno un’offensiva militare contro Egitto, Giordania e Siria, che si erano coalizzati per realizzare l’antico sogno di “ributtare gli ebrei in mare”.

L’obiettivo strategico della guerra preventiva scatenata da Israele era quello di mettere in sicurezza i suoi confini e, se possibile, ampliarli a spese dei suoi nemici storici.

Sappiamo come è andata: dopo pochi giorni Israele aveva conquistato il Sinai e la Striscia di Gaza a spese dell’Egitto, tolto tutta Gerusalemme e la Cisgiordania al regno hascemita e occupato l’altipiano del Golan e il monte Hermon espellendone i siriani.

Con la “guerra dei sei giorni”, Israele si era dato un obiettivo strategico e l’aveva conseguito.

Quando Hamas, il 10 maggio, ha scatenato il primo attacco di missili contro le città israeliane, a partire da Gerusalemme e Tel Aviv, Israele era impegnato a celebrare il “Jerusalem Day” (la giornata dedicata al ricordo della “liberazione” della città santa) e a fronteggiare una nuova ondata di proteste popolari provocate da una serie di sfratti ai danni di palestinesi residenti nel quartiere di Sehikh Jarra di Gerusalemme Est.

Un attacco missilistico contro la capitale di uno Stato sovrano è indubbiamente un atto di guerra e quindi siamo autorizzati a chiederci: qual è stato l’obiettivo strategico di Hamas nel momento in cui ha deciso di sferrare un’offensiva militare contro il suo nemico storico?

I lettori e i telespettatori dei media occidentali non hanno avuto che risposte confuse su questo argomento, in quanto i media europei e americani hanno preferito concentrare l’attenzione sulla sproporzione tra le vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani attuati in risposta all’offensiva missilistica lanciata da Gaza (243, di cui 74 bambini), rispetto a quelle provocate dai razzi di Hamas (12 adulti e un bambino, ai quali si deve aggiungere un ebreo linciato dai dimostranti palestinesi a Lydda).

L’aspetto umanitario di una guerra è sempre importante e degno di attenzione, ma non può essere il solo criterio di analisi delle motivazioni e delle responsabilità del conflitto.

Gli storici che hanno studiato la Seconda guerra mondiale non si sono concentrati soltanto sul destino dei bambini e dei civili tedeschi morti durante i bombardamenti alleati, ma ne hanno in caso ascritto giustamente la responsabilità alla follia di chi, come Hitler e i suoi accoliti, ha trascinato i civili tedeschi in una tragedia sanguinosa, la cui drammatica sorte va addebitata non solo a chi ha sganciato le bombe ma a chi, con avventurismo criminale, li ha coinvolti e li ha resi di fatto corresponsabili passivi in una guerra di aggressione.

I 74 bambini morti a Gaza sono stati vittime non solo delle bombe israeliane ma anche di chi, come la leadership di Hamas, ha deciso di collocare le rampe di lancio dei suoi razzi nei cortili delle case della città o di installare i suoi centri di comando militare all’interno di ospedali, scuole e di grattacieli abitati da centinaia di persone.

Il conto delle vittime non è sufficiente a stabilire le responsabilità di una guerra inutile, perché le vittime, tutte le vittime, “hanno sempre ragione”.

Il conto dei morti, tuttavia, può essere utile per comprendere il livello di spregiudicatezza di chi, come i vertici di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese, ha deciso di attaccare un avversario enormemente più forte, senza apparentemente speranza di vittoria o almeno un chiaro obiettivo, ancorché limitato.

Analizzando le prime dichiarazioni dei vertici palestinesi di Gaza, sembra chiaro che, attaccando Israele e subendone poi l’inevitabile ritorsione militare, gli estremisti palestinesi speravano, nell’ordine: di suscitare un’ondata di indignazione in tutto il mondo musulmano, mobilitando  le “masse arabe” contro quei governi che hanno cercato un appeasement con Israele, primi tra tutti i firmatari del “Patto di Abramo” che normalizza dallo scorso anno le relazioni tra Israele e Marocco, Tunisia, Emirati Arabi, Bahrein e Sudan. Questa strategia è fallita perché, a parte qualche scontata protesta di strada, il mondo arabo non si è “sollevato” per protestare contro i “crimini” di Gerusalemme e i suoi governi hanno atteso con pazienza che la mediazione egiziana portasse Hamas a più miti consigli; il secondo ipotizzabile obiettivo potrebbe essere stato quello di coinvolgere in modo più massiccio Turchia e Iran nel confronto militare con Israele. Se questo era un obiettivo il risultato non è stato raggiunto perché, per quanto riguarda Ankara, nonostante gli accesi toni propagandistici del presidente Erdogan nelle espressioni di condanna dell’”aggressione israeliana”, il sostegno ai palestinesi non è andato oltre le frasi di circostanza, anche perché la Turchia non dimentica di essere stata la prima nazione musulmana a riconoscere nel 1949 lo Stato di Israele e il suo diritto all’esistenza.

Per quel che attiene all’Iran, per comprendere la sua sostanziale presa di distanza dall’iniziativa di Hamas (alla quale non sarebbero state estranee discrete ma efficaci pressioni del governo cinese), è sufficiente rilevare che dal Libano gli Hezbollah che sono espressione diretta dei Pasdaran iraniani si sono limitati al lancio puramente dimostrativo di tre razzi verso le campagne del nord della Galilea, nell’ultimo giorno di guerra.

Se Teheran avesse voluto seriamente sostenere l’offensiva militare di Hamas avrebbe potuto ordinare a Hezbollah di intervenire dal Libano, mettendo in seria difficoltà le forze armate e il governo di Gerusalemme.

Al termine della “guerra degli undici giorni”, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese escono fortemente indebolite sul piano militare e politico da un’avventura militare senza senso e senza prospettive.

Anche l’idea di suscitare un guerra civile nelle città di Israele a popolazione mista ebraica e palestinese non è andata a buon fine, perché, dopo le violente proteste dei primi giorni la situazione si è rapidamente calmata e addirittura nelle principali città israeliane nei giorni scorsi si sono tenute manifestazioni “miste” con cortei di arabi ed ebrei che hanno invocato la ripresa della convivenza civile.

Anche sul fronte interno palestinese gli estremisti di Gaza con i loro missili non sembra abbiano guadagnato particolare consenso.

I palestinesi della West Bank non sono scesi in piazza in massa per solidarietà con “i fratelli” della Striscia e il leader dell’Autorità Nazionale Palestine, Abu Mazen non è andato, con le sue reazioni, al di là di qualche frase di circostanza.

Ciò che più conta, Abu Mazen si è ben guardato dall’indire nuove elezioni politiche in Cisgiordania, sospese ormai da anni, proprio per evitare il rischio di dare ad Hamas nei seggi, quella vittoria che le è mancata sul campo.

Il conflitto, poi, ha riportato al centro dello scacchiere mediorientale l’Egitto di Al Sisi che, grazie anche al sostegno discreto e riservato della Cina (Pechino ha ottime relazioni con Israele) al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è riuscito nell’opera di mediazione che ha portato alla cessazione delle ostilità.

In definitiva, la “guerra degli undici giorni” non può essere considerata un successo militare e politico delle frange più oltranziste del movimento palestinese.

Ma, nonostante il successo sul piano dell’autodifesa, Israele non può permettersi di dormire sugli allori, come fece dopo la “guerra dei sei giorni”, ma deve tornare ad affrontare il nodo della pacificazione della regione e della convivenza con la realtà palestinese, evitando innanzitutto di offrire il fianco alle accuse di razzismo e di apartheid provenienti dall’intellighenzia filo palestinese (per non dire antisemita) europea e americana.

L’impegno per la pace sarà un dovere per il nuovo governo israeliano, quale uscirà dalle consultazioni di questi giorni o da nuove elezioni politiche e dovrà partire da un nuovo dialogo con la componente di Abu Mazen che finora si è dimostrata la più realistica e pragmatica nel movimento palestinese.

Ma, arrivare alla pace in Palestina non è solo difficile per l’intransigenza degli estremisti, ma è anche pericoloso per l’incolumità di chi la persegue.

È di questi giorni la notizia dell’allontanamento, o meglio dell’espulsione violenta, dalla Moschea di Al Aqsa della massima autorità religiosa della città, il Gran Muftì di Gerusalemme Mohammed Al Husseini, accusato di eccessiva moderazione e di vicinanza ad Abu Mazen.

L’allontanamento del Gran Muftì, ci ricorda i sacrifici di chi, su qualsiasi fronte, si sia schierato per la pace negli ultimi settantaquattro anni a cominciare dal conte Folke Bernadotte caduto a Gerusalemme sotto i colpi dei terroristi ebrei del Gruppo Stern, il 16 settembre del 1948, mentre cercava per conto dell’Onu di mediare tra le fazioni in lotta, seguito due mesi dopo dall’egiziano Mahmoud Nokrashy Pascià che, per aver tentato di tenere fuori l’Egitto dalla guerra contro Israele, venne assassinato dai Fratelli Musulmani, gli stessi che il 6 ottobre 1981 assassineranno al Cairo il presidente Anwar El Sadat, colpevole ai loro occhi di aver fatto la pace con Israele.

Anche Itzak Rabin, eroe israeliano di tre guerre e primo ministro di Israele, per aver stretto la mano a Yassir Arafat e siglato gli accordi di pace del 1993, è caduto sotto i colpi di un estremista ebreo, mentre sulla morte nel 2004 del capo storico dell’Olp si sono addensate voci attendibili di un avvelenamento al polonio ad opera di chi intendeva eliminare un esponente della pacificazione.

Insomma in Palestina oggi più che mai, dopo l’inutile “guerra degli undici giorni”, c’è bisogno di un momento di respiro e di riflessione alla ricerca, anche con l’aiuto degli esponenti più moderati del mondo arabo, degli Usa, dell’Europa e di nuovi protagonisti dello scenario globale come la Cina, di un modello di convivenza civile e politica tra i contendenti di quella che rischia altrimenti di diventare una nuova “guerra dei cent’anni”.

In Palestina occorre cercare la pace, anche se chi ha cercato la pace, troppo spesso ha trovato la morte.

 


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