Gli studenti e i gruppi democratici di base hanno mobilitato la popolazione. La mobilitazione c’è stata, i risultati no. Questo nostro tempo non ama la libertà né la giustizia, né la democrazia, né il popolo. Conversazione con Gianni Criveller, missionario del Pime nella “Grande Cina” dal 1991
Gianni Criveller, missionario del Pime nella “Grande Cina” dal 1991, si è regolarmente recato nella Repubblica Popolare Cinese per seminari e conferenze dal 1998 al 2016, e continua a insegnare a Hong Kong. È certamente l’interlocutore giusto per affrontare la scottante questione di Hong Kong.
Quello di Hong Kong è un movimento popolare ma dopo mesi così difficili lei ritiene che al riguardo ci sia sufficiente consapevolezza qui da noi? O vede una comprensione parziale?
Certamente quello di Hong Kong è un movimento popolare; sia per quantità di persone coinvolte che per la qualità della partecipazione pubblica. Hong Kong non è mai stata democratica, né sotto gli inglesi (fino al 1997) né da quando è governata dal principio “un Paese due sistemi” ispirato da Deng Xiaoping.
Ma il movimento per la democrazia ha una lunga storia: nel giugno del 1989 a Hong Kong più un milione di persone scendono in piazza in solidarietà agli studenti di piazza Tienanmen (Pechino), la cui richiesta di libertà viene soffocata con i carri armati e l’uccisione di centinaia di cittadini. Ogni anno al Parco Vittoria di Hong Kong centinaia di migliaia di persone ricordano quel massacro. È nata così la coscienza democratica della città.
Nel 2003 un milione di persone si è opposta al primo tentativo di imporre una legge sulla sicurezza nazionale. Nel 2014 nasce il movimento degli ombrelli dei giovani studenti: sono tanti, pacifici, ordinati e determinati, ma non sono ascoltati. Nel giugno 2019 riparte il movimento popolare: ogni domenica la gente scende in strada, fino a due milioni di cittadini per volta. Le immagini delle manifestazioni oceaniche e pacifiche sono impressionanti. Hong Kong ha sette milioni di abitanti: il lettore faccia la debita proporzione. Nel novembre 2019 le elezioni amministrative, con la più alta percentuale di partecipazione mai registrata, vede i candidati democratici vincere tutti i seggi disponibili.
Temo che in Europa, e nel resto del mondo, la vicenda di Hong Kong sia appiattita sui rapporti di forza tra Cina e gli Stati Uniti, tra Cina e l’Europa, tra Cina e il resto del mondo. In questo modo si è convenientemente esentati dal conoscere per davvero quello che succede a Hong Kong, e le sue motivazioni profonde. Sono arrivato a Hong Kong 30 anni fa: ho visto crescere la coscienza democratica tra la gente. Hong Kong merita di essere riconosciuta per quello che è: una società avanzata, matura, sofisticata, post-moderna, che merita libertà e democrazia.
C’è chi parla di atti violenti da parte dei manifestanti. Le risulta un’accusa fondata?
So che alcuni rimproverano ai manifestanti episodi di violenza. Ma essi, del tutto esecrabili, sono stati causati, in larga misura, da infiltrati provenienti da gruppi mafiosi chiamati a compiere opera di destabilizzazione. Anche la polizia, fin dall’inizio, è stata oltremodo violenta, suscitando la reazione dei più esagitati. Ma in prigione sono finiti solo i leader politici e dei giovani che avevano sempre operato pacificamente e svolto un’opera di moderazione nei momenti di tensione. Che non mancano quando hai due milioni di persone in strada. Eppure la sciagurata e liberticida legge sulla sicurezza nazionale introdotta il primo luglio 2020 manda in prigione proprio gli operatori di pace.
Da aprile si sa di nuovi arresti e di estensioni di detenzioni già in essere. Sono personalità di spicco? Quali storie ci può dire di loro, e cosa rappresentano per Hong Kong?
Gli arresti e le condanne sono iniziati dal 2019. Più di 10.000 persone sono state arrestate, in gran parte manifestanti. La governatrice Carrie Lam aveva detto che con l’introduzione della legge sulla Sicurezza Nazionale sarebbero stati colpiti solo le persone violente. Ma non è stato così: è stata arrestata tutta l’opposizione (diverse dozzine di persone), fatta di leader stimati, moderati e pacifici. Quasi tutti sono parlamentari eletti dal popolo. Lo scorso 16 aprile sono stati sentenziati al carcere 9 di loro. Per tre, forse a causa della loro anzianità, la pena è stata “sospesa”.
Tra loro Martin Lee, 82 anni, chiamato “il padre della democrazia” di Hong Kong. Ha fondato il Partito democratico (che ha il sostegno maggioritario tra la popolazione) ed è tra gli autori della Legge-base, ovvero la carta costituzionale della città. Un uomo istituzionale e mite, un avvocato cortese e coraggioso. Io stesso l’ho incontrato tante volte in occasioni pubbliche, inclusa la Festa della Repubblica, che si celebra il 2 giugno al Consolato Italiano di Hong Kong. Nei decenni passati, se a Hong Kong ci fossero state le elezioni democratiche, lui sarebbe stato eletto Capo della città. Questo è sicuro.
Notissimo è anche Lee Cheuk-yan, il più importante sindacalista della città, per anni responsabile ultimo della veglia di Parco Vittoria a ricordo di Piazza Tienanmen. È un caro amico, e veniva spesso in Italia. Il 29 novembre 2019 parlammo di Hong Kong in un teatro di Milano di fronte a 700 persone. Uno degli uomini migliori che ho incontrato nella mia vita: ora è in carcere.
Non conosco personalmente Jimmy Lai, un imprenditore che crede nella democrazia. Ha fondato Apple Daily, il giornale più letto a Hong Kong e l’unica voce critica rimasta nei media della città. Temo che verrà presto chiuso: la polizia perquisisce la redazione e il fondatore, Jimmy Lai appunto, è in prigione. Rischia di starci per molti anni.
In carcere ci sono anche giovanissimi. I più conosciuti sono Joshua Wong e Agnes Chow. Quest’ultima è cresciuta come ministrante in una parrocchia guidata da un missionario del Pime, come lo sono io. Ha detto più volte che si è impegnata per la democrazia ispirata dalla fede cristiana. È diventata un’eroina, popolarissima anche in Giappone e in Corea. Anche Joshua è un cristiano, ed è un ragazzo di grande intelligenza politica. In rete si trovano le loro storie, e le immagini, tristissime, dei loro arresti e delle loro manette. Hanno messo in prigione “la meglio gioventù”. Questo tempo e questo mondo non ama la libertà.
L’idea di un Paese – due sistemi si allontana, ma nella situazione presente c’è una discussione tra chi preferirebbe la politica dei piccoli passi e chi ritiene importante la mobilitazione di massa?
Dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale, la cui interpretazione e applicazione è totalmente arbitraria, a Hong Kong non è possibile nessuna opzione tra “politica dei piccoli passi” o “la mobilitazione di massa”. Hong Kong, dal 1989, le ha provate entrambi. Io c’ero, conosco questa storia, ne sono stato parte.
I leader politici democratici hanno tentato per quasi 30 anni di avviare un processo democratico moderato e ordinato. La Legge Base, ovvero carta costituzionale di Hong Kong, lo prevede. Ma non hanno ottenuto niente. E ora, con la nuova legge elettorale che elimina del tutto la rappresentanza democratica, non ci sarà più nessuna voce d’opposizione nel parlamento di Hong Kong.
Gli studenti e i gruppi democratici di base hanno mobilitato la popolazione. La mobilitazione c’è stata, i risultati no. Lo ripeto, questo nostro tempo non ama la libertà né la giustizia, né la democrazia, né il popolo. Come è risaputo, la paura è la forma più economica per imporsi. Contro i regimi che opprimono e fanno paura, come la Cina, si preferisce il silenzio: deboli con i forti.