Nella battaglia che dovrà combattere in Ue sul tema della redistribuzione dei migranti tra gli Stati membri, Draghi sentirà il fiato sul collo della sua maggioranza, divisa da posizioni sociali e politiche su un tema così delicato. Il punto di Stefano Vespa
La battaglia comincerà lunedì 24 maggio e sarà uno contro tutti, o quasi. Al Consiglio europeo in programma all’inizio della prossima settimana Mario Draghi riproporrà il tema della redistribuzione dei migranti tra gli Stati membri e il tono con il quale ne ha parlato nella conferenza stampa di giovedì ha lasciato trasparire l’intenzione di non mollare di un centimetro. Ma non sarà facile.
Il quadro generale è noto a tutti, peggiorato dall’anno scorso a causa dal Covid che ha acuito la crisi economica di alcuni Paesi come la Tunisia. Il presidente del Consiglio ha detto che il meccanismo della redistribuzione “è stato messo a dormire da un po’ di tempo” nelle discussioni europee mentre invece “bisogna trovare assolutamente un accordo”. Anche i tre pilastri che ha indicato sono noti da tempo (sulla carta): la redistribuzione, un intervento economico sia degli Stati membri che dell’Unione europea nel suo complesso e la collaborazione bilaterale e multilaterale con i Paesi di provenienza, anche con l’aiuto dell’Onu.
All’insistenza italiana di riattivare come minimo l’accordo di Malta, ampliandolo, sembra stiano rispondendo Francia e Germania anche se ufficialmente finora solo l’Irlanda ha detto di volere accogliere 10 (dieci) migranti. Quell’accordo prevedeva la redistribuzione automatica entro quattro settimane dei migranti arrivati in Italia e Malta, alleggerendo il peso dei Paesi di primo approdo, anche se non è mai entrato davvero a regime. L’indifferenza europea e il cambio di governo in Italia hanno portato ad affrontare il tema quando l’emergenza è già in atto perché, nella migliore delle ipotesi, un accordo quadro potrebbe essere esecutivo quando altre potenziali decine di migliaia di persone saranno dirette verso l’Italia.
Ecco perché, nel frattempo, la commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, e la ministra Luciana Lamorgese nella visita a Tunisi hanno cercato una migliore collaborazione con quel governo offrendo un partenariato con l’Ue, con tempi al momento imprevedibili, e nel frattempo una maggiore disponibilità a rimpatri dall’Italia e all’attivazione di una “linea diretta dedicata” con la possibilità che l’Italia avverta le autorità tunisine su imbarcazioni dirette verso le nostre coste. In sostanza, con controlli aerei e con i radar si consentirebbe loro di fermare quanti sono appena partiti
Non a caso, nel comunicato del Viminale si dà atto delle operazioni di interdizione che negli ultimi giorni hanno consentito di fermare mille migranti e di sequestrare diverse imbarcazioni. Anche aumentare i rimpatri è fondamentale perché i numeri stanno diventando impietosi: su 13.359 persone arrivate quest’anno, 1.789 sono tunisine. Il record è del Bangladesh con 2.283. Siamo su una media del triplo rispetto all’anno scorso anche a maggio, con 4.346 arrivi in questo mese.
Nella battaglia che dovrà combattere, Draghi sentirà il fiato sul collo della sua maggioranza, divisa da posizioni sociali e politiche su un tema così delicato. Due notizie di cronaca danno il polso della situazione: durante l’ultimo sbarco a Pozzallo, i responsabili della ong Sea Eye 4 hanno detto che non meglio precisate “autorità locali” avrebbero pronunciato frasi razziste durante i controlli medici. Dall’altra parte dell’Italia il procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo, ha spiegato che ogni giorno vengono rintracciati migranti provenienti dai Balcani, che chiunque abbia un furgone fa affari e che individuare chi li accompagna “è come svuotare il mare con un cucchiaino”. I confini “bucati” a nord e i cenni di insofferenza a sud sono un pessimo segnale.