Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Esplosioni e diplomazia, cosa succede in Iran prima del voto

Il Paese si avvia verso le presidenziali in un clima di grande agitazione. Gli interessi di Israele, le priorità americane, le mosse saudite e lo scontro interno tra conservatori e pragmatico-riformisti, in un dossier che scalda il Medio Oriente

Nel pomeriggio di domenica 2 maggio sono iniziate a circolare sui social network le immagini di una nuvola di fumo, nero e denso, che si alzava dall’impianto chimico di Movaledan, nei pressi della città sacra iraniana di Qom. Dando per vera fino a prova contraria la ricostruzione di un incidente, va riportato il perché insieme alle immagini serpeggiavano ipotesi più complesse. Si tratta di sabotaggi e attacchi, secondo speculazioni che seguono sempre situazioni del genere quando avvengono in Iran. D’altronde non è la prima volta, basta ricordare l’assassinio dello scienziato a capo del programma nucleare (novembre 2020), o la serie di misteriosi eventi di quest’estate, o ancora quanto successo a inizio aprile al grande impianto nucleare di Natanz.

Di mezzo, di solito, viene sempre tirato il Mossad, i servizi segreti israeliani che operano all’esterno del paese. La ragione è che Israele vede l’Iran come nemico esistenziale, e Tel Aviv  non ha sempre negato il proprio coinvolgimento in certe vicende (e quel “coinvolgimento” può significare un’operazione del Mossad). E spesso certe azioni clandestine sono coincise con dinamiche internazionali su cui lo stato ebraico ha interesse. Nei giorni scorsi, il capo del Mossad, Yossi Cohen, era a Washington alla guida di una delegazione di esperti di sicurezza e intelligence del paese che si sono incontrati con parigrado americani per parlare di Iran e della regione mediorientale. Non solo: Cohen ha avuto anche una riunione con il segretario di Stato e un’altra con il presidente Joe Biden.

Come spiegato su Formiche.net, questo genere di meeting, sebbene siano fuori dal protocollo normale, sono del tutto comuni nel caso di Israele, dove il capo del Mossad di fatto conduce le questioni di politica estera per conto del governo. E in questo caso anche per due ragioni in più: primo, Cohen è intimamente connesso con il premier Benjamin Netanyahu; secondo, di Netanyahu potrebbe essere addirittura il successore, quando la lunghissima parabola politica del primo ministro arriverà alla conclusione. Israele vuole condividere le sue preoccupazioni con gli Stati Uniti, perché vede come inevitabile che Washington trovi una quadra per rientrare all’interno del JCPOA, l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano da cui l’amministrazione Trump era uscita unilateralmente (dopo che nel 2015 fu quella Obama a scriverlo) e ora Biden intende ricomporre.

Per Tel Aviv è un problema, perché la ricomposizione dell’intesa eliminerebbe le sanzioni all’Iran, che tornerebbe a crescere e potenzialmente potrebbe essere un rivale ancora più forte per Israele – che sente il fiato sul collo delle varie attività regionali dei Pasdaran. Secondo le informazioni diffuse dal viceministro iraniano, Abbas Araqchi, nell’ultimo round di colloqui – condotti a Vienna, mediati tra Iran e Usa attraverso l’Ue, cofirmatario con Russia e Cina del JCPOA – si sarebbe raggiunta una bozza d’intesa. Teheran accetterebbe di tornare indietro sulle violazioni all’accordo del 2015 (frutto di una rappresaglia dopo l’uscita americana), e Washington inizierebbe a togliere alcune sanzioni individuali, parti di quelle sul petrolio e sulle banche. Non è poco – per Israele è molto, visto che è preoccupato che quest’accordo non solo non risolva la questione atomica, ma complichi quella collegata ai missili balistici e all’uso delle milizie armate sciite per operazioni di influenza regionale.

Di più. A rendere ancora più articolato il quadro attuale per Tel Aviv c’è anche il fatto che un altro attore ostile all’Iran, l’Arabia Saudita, si sia messo in una posizione più aperta. Il principe ereditario Mohammed bin Salman – che non più tardi del marzo 2018 paragonava la Guida Suprema iraniana a Hitler – ora parla della necessità di trovare un equilibrio con la Repubblica islamica, che contende a Riad (e Ankara) il ruolo di egemone del mondo islamico. E dal governo iraniano si risponde con altrettanta apertura e apprezzamento. Insomma, c’è molto movimento e Israele – che ha recentemente riaperto le relazioni formali con gli Emirati Arabi Uniti e altre parti del mondo arabo grazie agli Accordi di Abramo – vuole tenerlo d’occhio. Anche perché i contatti di Tel Aviv con Abu Dhabi, e più o meno indirettamente con Riad, si basano sul catalizzatore anti-iraniano messo in soluzione dagli americani d’era Trump.

Ora Biden chiede una normalizzazione generale, perché la regione mediorientale è troppo turbolenta per quelli che sono gli interessi americani (un sostanziale disimpegno, con controllo delle dinamiche da remoto). Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, uno degli artefici sei anni fa del JCPOA, era in giro per il Golfo e ha incontrato iracheni, omaniti e kuwaitiani (tutti interessati alla calma regionale). A giugno si votano le presidenziali in Iran, e il gruppo pragmatico-riformista di Zarif, rappresentato dal due volte presidente Hassan Rouhani, deve difendersi dall’assalto dei conservatori e degli ultra-conservatori.

Nei giorni scorsi Zarif è finito vittima di un audio-leak (diffuso da un sito saudita, basato a Londra e specializzato sugli insights iraniani), in cui si sente il ministro lamentarsi di aver lavorato sempre sotto la sordina dei Pasdaran. Zarif ha accusato uno dei comandanti epici, Qassem Soleimani (ucciso lo scorso anno da un drone americano), di aver lui il ruolo centrale negli affari internazionali di Teheran. Il ministro è stato costretto a scusarsi, ha subito l’attacco retorico della Guida, a cui è seguito quello della Kataib Hezbollah (una milizia sciita irachena guidata dai Pasdaran e più volte bombardata da americani e israeliani).

Domenica sera due razzi hanno colpito Camp Victory, la parte dell’aeroporto internazionale di Baghdad in cui sono acquartierati anche militari americani: di solito questi attacchi sono lo sfogo di certe tensioni, ordinati dalle milizie filo-iraniane irachene. Israele traccia e colpisce il trasferimento di armi dai Pasdaran alle milizie (sia in Siria che in Iraq). Nei colloqui con Washington Tel Aviv ha messo in chiaro di voler mantenere questa capacità operativa anche se gli Usa rientreranno nel JCPOA.

×

Iscriviti alla newsletter