La nascita di un governo senza Netanyahu dopo 12 anni, il futuro degli Accordi di Abramo e la scommessa Usa sull’Egitto per bloccare la Via della Seta cinese nel Mediterraneo. Conversazione con Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI
Che in Israele nasca o meno un governo senza Benjamin Netanyahu dopo oltre un decennio, il vento in Medio Oriente sembra comunque destinato a cambiare. O forse è già cambiato.
Viene da sospettarlo guardando alle ultime mosse dell’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden. La scorsa settimana il tour mediorientale del segretario di Stato Antony Blinken ha visto come prima tappa Gerusalemme. Lì il capo della diplomazia statunitense ha incontrato il presidente Reuven Rivlin consegnandogli l’invito per un incontro alla Casa Bianca nelle prossime settimane, cioè entro la scadenza del suo mandato a luglio. Nelle settimane precedenti Blinken aveva ricevuto a Washington Yossi Cohen, che in queste ore sta lasciando a David Barnea la direzione del Mossad: uno strappo al protocollo per un faccia a faccia tra un politico e una spia. I due incontri, come sottolineavamo su Formiche.net, dimostravano l’esistenza di un dialogo su più binari tra Washington e Gerusalemme emerso ancor più chiaro dopo l’uscita di scena di Donald Trump, che con il primo ministro Netanyahu ha sempre avuto un rapporto speciale.
In queste ore Yair Lapid e Naftali Bennett stanno cercando di limitare gli ultimi dettagli per la formazione di un governo che metterebbe fine all’era Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia di Israele, più del padre della patria, il laburista David Ben Gurion.
Ma come sta cambiando lo scacchiere nella regione? L’abbiamo chiesto a Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI (Centro Studi Internazionali). “La possibile uscita di scena di Netanyahu”, spiega l’esperto, “potrebbe influire notevolmente sul contesto domestico ma anche su quello regionale e internazionale. A tal proposito, abbiamo visto come tutte le amministrazioni statunitensi da quella di Barack Obama in poi abbiano deciso di interfacciarsi con il premier ma anche di costruire relazioni con altri interlocutori. Tra questi, i presidenti Shimon Peres e Reuven Rivlin e il ministero della Difesa per affrontare anche discussioni di più ampio respiro che Netanyahu aveva fagocitato”.
Nella sua recente visita in Medio Oriente il segretario Blinken ha annunciato diverse mosse dell’amministrazione Biden: confermando il sostegno a Israele, ha promesso aiuti per 75 milioni di dollari ai palestinesi e ha annunciato riapertura del consolato generale a Gerusalemme che tornerà a occuparsi delle questioni palestinesi. Una scelta che Dentice definisce “una questione tattica: da una parte gli Stati Uniti non vogliono ritrovarsi invischiati nuovamente nella questione israelo-palestinese e stanno delegando a potenze di area un ruolo attivo; dall’altra non intendono continuare la solita litania dei due Stati, che il campo ci dice essere questione morta. Per questo prendono tempo e cercano di non perdere il rapporto con i palestinesi”, aggiunge l’esperto.
Lo slancio unilaterale trumpiano è soltanto un ricordo. Ma ciò non significa che tutto quanto realizzato dal precedente inquilino della Casa Bianca verrà smontato. “Non credo che vedremo stravolgimenti tali da poter dire che gli Accordi di Abramo cesseranno di esistere: quello che hanno segnato è, infatti, un processo irreversibile”, riflette Dentice. “Potrebbero subire rallentamenti e trasformazioni minime come recentemente abbiamo visto dalle reazioni ai fatti di Gerusalemme. Nel lungo periodo, però, sembra assisteremo a un consolidamento, anche per via del fatto che è difficile immaginare che gli attori impegnati – a partire dagli Emirati Arabi Uniti e in maniera indiretta l’Arabia Saudita – scelgano di ridurre il loro engagement nei confronti di un player fondamentale per le loro strategie qual è Israele”. Anche perché, continua Dentice, “la logica degli Accordi di Abramo risponde anche agli sforzi dell’amministrazione Biden. Con toni meno unilaterali di quelli usati da Donald Trump, questa strategia verrà probabilmente mantenuta pressoché invariata”.
È questo il quadro che sembra emergere dal recente tour mediorientale segretario Blinken che è stato prima a Gerusalemme e a Ramallah, poi al Cairo, in Egitto, e ad Amman, in Giordania. Una serie di tappe che “sembra suggerire che gli Stati Uniti non torneranno ad avere un ruolo militare e politico in Medio Oriente paragonabile a quello a cui eravamo abituati”, commenta Dentice. “Piuttosto cercheranno di conservare aree di influenza su dossier o attori strategici. Tra questi Israele, i vari attori del Golfo e probabilmente l’Egitto. Il coinvolgimento di quest’ultima potenza serve anche a dare segnale alla Cina, essendo quel Paese uno snodo cruciale della Via della Seta nel Mediterraneo”, conclude l’esperto.