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Italia a tutto gas (russo?). Il risiko green tra Roma e Berlino

Una lettera dei Verdi al Parlamento Ue chiede a Francia, Germania e Italia di fermare i finanziamenti al gasdotto russo Arctic LNG2 in Siberia. Una partita energetica (perché usa combustibili fossili) ma anche geopolitica (guardando a Baerbock). Intanto fra Washington, Berlino e Roma prosegue la corsa all’idrogeno

C’è posta per Mario Draghi. I Verdi europei contano sull’Italia per fermare la costruzione dell’Arctic Lng2, il gasdotto russo da 21 miliardi di dollari costruito da Novatek al largo della penisola Yamal, in Siberia, che dal 2025 produrrà ed esporterà in Asia e in Europa circa 20 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto all’anno.

In una lettera indirizzata al presidente del Consiglio, al ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani e al ministro dell’Economia Daniele Franco, insieme ai vertici del governo francese e tedesco, il gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, compresi i suoi quattro eurodeputati italiani (gli ex Cinque Stelle Corrao, Pedicini, Evi, D’Amato), invita Palazzo Chigi a “rifiutare di supportare questo progetto e a individuare un nuovo standard mettendo fine a qualsiasi garanzia all’export per i combustibili fossili prima del Cop26”.

Dietro il gasdotto nell’Artico c’è un consorzio di aziende guidato da Novatek e composto dalle giapponesi Mitsui e Jogmec e dalle cinesi Cnpc e Cnooc. L’Italia è parte in causa del progetto che permetterà al governo russo di estendere il suo dominio del mercato energetico al settore del gas liquefatto. Il 19 dicembre 2018, alla presenza di Giuseppe Conte e dell’allora vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio, i rappresentanti di Novatek hanno firmato a Palazzo Chigi un accordo con Saren, Sace e la storica fonderia fiorentina Nuovo Pignone per circa 2,7 miliardi di euro complessivi.

Fonti di stampa non smentite hanno riportato di un’istruttoria in corso di Sace, società per azioni del gruppo Cassa depositi e prestiti, per il rilascio di una garanzia di circa un miliardo di euro a favore delle società coinvolte nel progetto, come Saipem, e delle banche che potrebbero essere interessate a finanziarlo, come Intesa San Paolo.

Due sono le critiche mosse dai Verdi al gasdotto russo. La prima guarda al lato ambientale. Le attività estrattive e il ciclo di produzione del gas liquefatto hanno spesso impatti negativi sull’ambiente e sul riscaldamento climatico, senza contare possibili perdite dovute a incidenti. “Questo progetto produrrà 19.8 milioni di tonnellate di Lng ogni anno, e questo cosiddetto “gas naturale” è fonte di importanti emissioni di carbonio con fuoriuscite di metano lungo tutta la catena di produzione”. Una realtà che, accusano i Verdi, va in direzione opposta agli sforzi dell’Ue (e dell’Italia) di tagliare drasticamente le emissioni di Co2 entro il 2030 e di ridurle a zero entro il 2050.

La seconda faccia critica riguarda la sicurezza. Un quinto del gas dell’Arctic Lng2 sarà destinato al mercato energetico europeo, accentuandone la dipendenza dai rifornimenti russi. E la Russia “ha dimostrato tante volte di essere un fornitore inaffidabile, e politicamente problematico, specialmente nei mesi scorsi”.

La missiva conferma il grande scetticismo dei Verdi nei confronti della Russia di Vladimir Putin, già espresso apertamente per una ben più importante partita della geopolitica energetica europea, quella che circonda il gasdotto russo diretto in Germania North Stream II, in passato finito sotto sanzioni americane.

In una recente intervista a Formiche.net la presidente dei Verdi Ue Ska Keller ha detto che quel gasdotto “va fermato” perché è stato costruito “con l’obiettivo di danneggiare e isolare l’Ucraina e la Polonia”. Il nodo politico non è banale, perché a settembre con le elezioni per il cancellierato la Germania si prepara ad entrare nell’era del dopo-Merkel e i sondaggi danno per favorita la candidata dei Grünen Annalena Baerbock, severissima con la Russia e il suo quasi-monopolio nel mercato energetico in Europa.

Non sfugge a nessuno la partita (geo)politica che si cela dietro il dibattito sulla transizione verde e l’uso che si deve fare dei 700 miliardi di euro del Recovery Fund. Se infatti sui gas combustibili il primato russo nel Vecchio Continente è ormai irreversibile, sull’idrogeno si è aperta una nuova competizione globale che vede gli Stati Uniti, e la stessa Ue, in piena corsa.

Nel luglio del 2020 la Commissione europea ha pubblicato la “Strategia per l’idrogeno” con l’obiettivo di produrre entro il 2030 “fino a 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile”. Al tempo stesso gli investimenti nell’idrogeno sono al centro del piano per le energie rinnovabili da 2 trilioni di dollari annunciato dal presidente americano Joe Biden fin dall’inizio della campagna elettorale con la promessa di azzerare le emissioni entro il 2050. “L’idrogeno è un’enorme opportunità” per il settore oil, ha detto questo sabato la Segretaria all’Energia Jennifer Granholm. Ma il trend è globale: grandi gruppi del settore energetico russo e cinese come Rosatom e Sinopec stanno già avviando progetti a idrogeno verde.

Sulla mappa c’è anche l’Europa. È notizia di queste ore il lancio da parte della Germania di 62 progetti per un totale di 8 miliardi di euro all’interno dell’Ipcei idrogeno avviato dalla Commissione europea a fine 2020. I piani spaziano dall’inaugurazione di nuovi impianti alla costruzione di gasdotti e dovrebbero attivare 33 miliardi di euro in investimenti.

In Italia gli Ipcei sono coordinati da Enea e fra le aziende nazionali pronte a scendere in campo per l’Ipcei ci sono Eni, Snam, Tenaris, Edison e Fincantieri. Il dossier è sulla scrivania del ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti, che ne ha discusso in un recente incontro a Via Molise con il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire. In quell’occasione il numero uno di Palazzo Bercy aveva definito l’Ipcei sull’idrogeno uno dei “quattro pilastri” dell’autonomia strategica europea.

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