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Lo stop ai licenziamenti non basta. Servono serie politiche attive del lavoro per ripartire

Tra le richieste di Confindustria, la proroga dello stop dei licenziamenti del ministro Orlando e la mossa di Draghi, il Paese ha oggi bisogno di vere politiche attive del lavoro basate su un mix di formazione, avvio al lavoro, ricollocazione quando serve e tutti gli altri strumenti per i quali basta dare un’occhiata a Paesi-guida come ad esempio la Danimarca. Il commento di Luigi Tivelli

Le reazioni di molti esponenti delle associazioni e del mondo di Confindustria e anche della stessa sottosegretaria al ministero del lavoro al sostanziale prolungamento della cassa integrazione e del divieto di licenziamento, che dura da moltissimo tempo a tutto il mese di agosto, disposto con una decisione repentina dal ministro del lavoro Orlando, evidenziano una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, che sta emergendo una questione seria, una vera e propria emergenza per la questione del mercato del lavoro nel nostro Paese.

Una questione che, così come quelle della Pubblica amministrazione, o della giustizia, o altre, avrebbe dovuto essere oggetto di una vera e propria “riforma” in seno al Pnrr e non solo di stanziamenti di cui vengono a beneficiare soprattutto i soggetti pubblici in buona parte inefficienti e obsoleti che operano nel settore del lavoro italiano. La questione della formazione delle competenze, della manutenzione e riconversione del capitale umano dovrebbero infatti meritare altrettanta attenzione quale quella della transazione ecologica e digitale. Invece, abbiamo un ministro del Lavoro che sostanzialmente opera sulla base di una linea politica superata dai tempi in quanto attestata sulla difesa statica del singolo posto di lavoro e non sulla difesa dinamica del lavoro in prospettiva. Ciò che ha penalizzato, come dimostrano i dati dell’ultimo anno, e continuerà a penalizzare i soggetti più deboli, a cominciare dai giovani e dalle donne.

Gli stessi finanziamenti aggiuntivi per il lavoro nel Pnrr non hanno fatto che rafforzare quella che era la linea del tempo del governo Conte, con l’aggiunta di dare più soldi alle strutture esistenti e una maggiore dotazione di personale. Eppure, una persona intelligente quale pur è il ministro del Lavoro dovrebbe sapere qual è la condizione e il livello di efficienza ed efficacia dei nostri centri per l’impiego che avrebbero bisogno quasi di una rivoluzione più che di una riforma e che dovrebbero essere messi in collegamento finalmente con le agenzie private per il lavoro che hanno dei know how che i centri per l’impiego non hanno, per vari aspetti, come la profilazione dei disoccupati, la ricollocazione ed altri.

Lo stesso contratto di ricollocazione su cui si punta è dimostrato che potrà essere utilizzato solo dalle piccole e micro imprese e quindi riguardare poche decine di migliaia di interessati. Ma poi c’è la questione fondamentale delle politiche attive del lavoro: non si può credere di affrontare la questione dell’Anpal facendone uno spezzatino. Il Paese ha finalmente bisogno di vere politiche attive del lavoro basate su un mix di formazione, avvio al lavoro, ricollocazione quando serve e tutti gli altri strumenti per i quali basta dare un’occhiata a Paesi-guida come ad esempio la Danimarca.

Ma per fare tutto questo occorre un decisivo salto di qualità, abbandonare gli ideologismi, non dipendere troppo dalle istanze di Cgil, Cisl e Uil e pensare all’interesse globale del mondo del lavoro a partire da quelli che oggi sono i soggetti deboli e che dovranno essere i lavoratori guida del futuro.

Né può bastare il pur utile segnale di mediazione offerto, su pressione di Confindustria dal presidente Draghi, secondo cui il blocco dei licenziamenti rimarrà ma solo per chi utilizzerà da primo luglio la Cassa integrazione ordinaria. Al quale si aggiunge, sempre su richiesta di Confindustria, una riforma in tempi molto stretti degli ammortizzatori sociali.

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