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Da Tripoli a Roma. Il futuro della Libia secondo l’Amb. Stefanini

La visita a Roma del primo ministro della Libia nell’analisi dell’amb. Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consigliere diplomatico del presidente della Repubblica e rappresentante permanente dell’Italia alla Nato. In Libia le armi tacciono, il processo interno di ricomposizione politica è avviato, il governo transitorio ha nelle vele il vento favorevole di quasi tutta comunità internazionale. Eppure, le insidie sono numerose…

Roma chiama, Tripoli risponde. Abdelhamid Dabaiba, primo ministro libico, restituisce oggi la visita di un paio di mesi fa del presidente del presidente del Consiglio. In rapida sequenza Italia e Libia si scambiano un inequivocabile segnale di reciproco interesse. Il messaggio di Mario Draghi al nuovo governo di Tripoli era stato “potete contare sull’Italia; sono qui non solo per parlare dei problemi – immigrazione, instabilità politica – ma anche per riprendere il filo della collaborazione bilaterale”. Vedremo come si articolerà quello di Dabaiba, ma la sua presenza è già una risposta: “ci interessa”. Forte e chiara.

È presto per immaginare una situazione virtuosa dove la collaborazione economica bilaterale trova tutte le porte aperte e la strada spianata. In Libia le armi tacciono, il processo interno di ricomposizione politica è avviato, il governo transitorio ha nelle vele il vento favorevole di quasi tutta comunità internazionale. In pratica lo appoggiano, oltre Nazioni Unite e Ue, tutti i principali attori in Libia – Italia, Francia, Usa, Egitto e Turchia – ad eccezione di Russia e Emirati che, avendo puntato troppo sulla soluzione di forza ad opera di Khalifa Haftar, non hanno ritirato la posta. Ma di qui alla stabilizzazione, che richiederà elezioni e un governo definitivo, il cammino è ancora lungo con ostacoli di vario genere in agguato. La guerra è finita ma la pace non è ancora cominciata.

Sul piano dei rapporti bilaterali italo-libici, specie dei rilevanti potenziali contenuti economici, la visita di Dabaiba è pertanto solo l’inizio di un percorso. Ma non per questo è meno importante. Anzi. Per tre motivi. Il primo è il banale “il buongiorno si vede dal mattino”: le opportunità vanno colte all’inizio quando sono magari ancora un po’ acerbe ma prima che le colgano altri. In Libia i concorrenti non mancheranno.

Il secondo ha a che vedere con il clima che si è creato nel paese dopo l’arresto delle ostilità. Di sollievo – che si respira nella normalità delle strade e delle piazze di Tripoli, Tobruk, Bengasi, Misurata, Sirte – ma anche di attesa. I libici vorrebbero quanto prima riscuotere i dividendi della pace, riaprendo il Paese alla cooperazione economica e agli affari. Molti di loro, per conoscenza, legami e tradizione, guardano all’Italia, dove ci sono interlocutori, con le stesse motivazioni, pronti a rispondere.

Il terzo è la valenza politica di un forte rilancio delle relazioni economiche italo-libiche. Sono la leva migliore di cui dispone l’Italia per sostenere il consolidamento della riconciliazione nazionale di cui è interprete il governo di Dabaiba. Non si tratta di prendere le parti dell’attuale primo ministro nel contesto interno libico ma di sostenere l’operazione di stabilizzazione che il suo governo sta portando avanti. Questo consente all’Italia di rimettersi in campo nel gioco libico dopo aver giocato un ruolo marginale nella guerra civile, come pure gli altri europei e l’Ue, ma è magra consolazione.

L’Italia ha avuto il coraggio e il merito di non andarsene. Siamo gli unici occidentali ad aver mantenuto l’ambasciata aperta e funzionante, tranne una breve parentesi, con due eccellenti diplomatici alla guida, Giuseppe Perrone e Giuseppe Buccino. Tuttavia, durante le fasi acute delle ostilità fra Tripoli e Bengasi e fra le varie milizie, nessuno ascoltava i profeti disarmati. La capitale si è salvata dall’assedio di Haftar grazie soprattutto alla Turchia che ha fornito un sostanzioso aiuto militare in barba all’embargo internazionale. Questo è un dato di fatto. In quel momento servivano i cannoni. Adesso, fortunatamente, serve anche il burro. Non potevamo o volevamo mettere sul piatto della bilancia i primi. Puntiamo sul secondo.

Mario Draghi ha affrontato il nodo libico con due felici intuizioni. Innanzitutto, trattandolo non solo come un problema immigratorio o di sicurezza, ma anche come autentico partenariato tra due Paesi avvicinati da interessi, legami culturali e geografia. In secondo luogo, rispolverando progetti essenziali per il futuro della Libia come i due tronconi autostradali che aprono il Paese a est, con l’Egitto, e a ovest, con la Tunisia. Che è anche fare politica mediterranea sulla sponda sud. Questa la conversazione che Dabaiba continua oggi a Roma.

Sulla scia delle grandi opere c’è poi una miriade di potenzialità per la piccola e media impresa italiana impaziente di ricollegarsi ad interlocutori libici, altrettanto disponibili. Il sindaco di Tripoli vorrebbe restaurare il patrimonio architettonico della città; pensiamo agli orizzonti inesplorati del turismo. Occorrerà una Libia stabile e il Paese non ci è ancora arrivato. Ma ha imboccato la strada. Prepariamoci, con prudenza, a percorrerla anche noi.


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