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La Cina perde pezzi. Il caso Lituania è un precedente?

L’uscita di Vilnius dal sistema “17+1” rischia di essere un pesante precedente per Pechino, che perde un pezzo della strategia con cui intendeva dialogare con l’Unione europea dividendola in pezzi. La Cina fatica a gestire le proprie relazioni internazionali

La Cina fatica a spingere la propria immagine nel mondo, e dimostra queste sue difficoltà nella gestione dei propri rapporti internazionali. Una situazione che è anche collegata alla pandemia. Le ultime imbeccate dell’intelligence americana sulle possibilità di una fuga involontaria del virus dal laboratorio biochimico di Wuhan mettono, più che una preoccupazione di sicurezza, un dubbio enorme sulle responsabilità cinesi dietro a quanto sta ancora subendo l’intero pianeta da oltre un anno.

Il Partito/Stato sente il peso della situazione: una pianificazione – della crescita globale di Pechino – che ha dovuto scontrarsi con la realtà. E spesso, nella gestione della risposta alle varie questioni che si innescano, la Cina usa aggressività – dimostrazione dell’affanno, dato che il mantra della diffusione globale cinese dovrebbe essere l’armonia. Ma se le trappole del debito riservate ai Paesi africani sono la faccia subdola del rapporto che l’Impero Celeste intende costruire con i satelliti, si ripetono via via le dimostrazioni di nervosismo che rendono esplicita la linea muscolare.

Prendere per esempio il caso della Lituania. Vilnius è uscita dal “17+1”, ossia lo schema geopolitico che la Cina (il “+1”) aveva costruito con 17 Paesi dell’Europa centro-orientale (i CEEC, Central and Eastern European Countries). Era una via per proiettare influenza nell’area di contatto con la regione eurasiatica, utile per Pechino per incunearsi all’interno dell’Ue attraverso clientes amici e contemporaneamente facilitare le infrastrutture (geo)politiche della Belt and Road Initiative.

Ma da tempo le cose non fluiscono più come previsto, l’armonia s’è rotta, diversi di quegli Stati europei hanno dimostrato nervosismo, e ora il governo lituano – vicino per ragioni che riguardano il Baltico e la Russia al sistema Nato/Occidente – ha deciso di uscire dal gruppo. “L’introduzione delle vaccinazioni e la lotta alle pandemie sono solo [alcuni] esempi recenti dell’UE27 unita nella solidarietà e nello scopo. L’unità dei 27 è la chiave del successo nelle relazioni dell’Ue con i partner esterni. Le relazioni con la Cina non dovrebbero fare eccezione”, spiega a Politico il ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis. Lo stesso che annunciando la decisione, due mesi fa, spiegava che il 17+1 non ha portato alla Lituania “quasi nessun vantaggio”. Nella stessa occasione rendeva pubblico l’intenzione di aprire un ufficio commerciale a Taiwan.

Parole importanti, perché centrano il punto del “dividi et impera” con cui la Cina si pone all’Ue. La scelta di Vilnius – ed evidentemente la spiegazione di Landsbergis – devono aver fatto innervosire Pechino, basta leggere l’editoriale pubblicato lunedì 24 maggio sul Global Times. Un passaggio: “La Lituania non è qualificata per attaccare la Cina e questo non è il modo in cui dovrebbe agire un piccolo Paese”. Ossia: i satelliti devono stare zitti-e-buoni, un’uscita non proprio armonica. Simile a quella con cui i giorni scorsi sempre il Global Times ha trattato Taiwan, ricordando all’Isola che, visto che gli Stati Uniti non le stanno inviando nemmeno i vaccini, non è detto che intendano difenderla in caso di guerra. Scenario dunque evocato dal giornale con cui il Partito/Stato diffonde la propria linea in globish.

Landsbergis ha toccato anche il tasto dolente dei vaccini. La Cina ha voluto cercato di avvicinarsi ai cinque paesi extra-Ue del 17+ 1 – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – riempiendoli di maschere e vaccini gratuiti contro il coronavirus. Ma il ministro lituano ha sottolineato come la soluzione migliore alla pandemia sia la risposta collettiva dell’Ue – anche perché tecnicamente i vaccini cinesi sembrano avere più di un problema.

Risposta collettiva che Pechino ha dovuto recentemente subire su un territorio delicatissimo, l’accordo per gli investimenti Ue-Cina (noto con l’acronimo CAI), che il Parlamento europeo nei giorni scorsi ha congelato. In questo caso l’atteggiamento cinese è stato diverso però. Il segretario del Partito comunista cinese, il capo dello Stato Xi Jinping, ha personalmente chiamato il presidente francese, Emmanuel Macron, e la tedesca Angela Merkel, mentre il premier Li Keqiang telefonava a Roma a Mario Draghi. Obbiettivo di questi contatti convincere i governi degli stati più importanti di Europa a far votare gli europarlamentari connazionali a favore del CAI.

L’iniziativa diplomatica non è andata bene (probabilmente a Xi sfugge che i governi, nelle democrazie liberali, non hanno il controllo dei parlamenti, semmai è l’opposto). E Pechino s’è dimostrata anche in questo caso in difficoltà nel gestire le relazioni internazionali. Dall’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden i rapporti atlantici hanno visto un impulso e una fiducia rinnovata, questione che si ripercuote nelle relazioni con la Cina. Lo schema multipolare che si sta consolidando vede comunque un blocco (Usa, Ue, democrazie asiatiche) in competizione con quello cinese (e russo). Complice anche la poca trasparenza all’inizio dell’epidemia del SarsCov2, Pechino ne sta subendo gli effetti.


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