L’11 maggio 1931 usciva a Berlino il primo film della storia del cinema che trattava il tema dello stupro e omicidio di bambini: “M-Il mostro di Düsseldorf” di Fritz Lang. Psicanalisi, follia, schizofrenia, violenza sull’infanzia, giustizia della folla versus giustizia dello Stato; punizione versus cura del malato. Alla vigilia dell’ascesa di Hitler
Bambine e bambini giocano, in cerchio, nel cortile di una palazzina popolare. Cantano una canzoncina thriller (“monellaccio…coltellaccio”) ispirata a un mostro che sta uccidendo le bambine della città. Sono ripresi dall’alto, in plongée obliquo. La camera si alza in gru su verso un terrazzo-balcone a mo’ di stenditoio. Una signora, una madre di loro, entra in campo e li rimprovera dal ballatoio: la triste canzoncina è terrificante per gli adulti, ma gioco per i bambini. Nello stacco successivo siamo nelle scale del condominio. La canzone fuori campo continua, preparando lo spettatore a qualcosa di angosciante.
RETORICA DELLE IMMAGINI E DEI SUONI
Fritz Lang, già conosciuto dal pubblico d’Europa per capolavori come Destino (Der müde Tod, 1921) Il dottor Mabuse (1922) I Nibeunghi (1923-24) e Metropolis (1927), con M – Il mostro di Düsseldorf (1931), porterà, agli albori del sonoro, un altro contributo notevole allo sviluppo del linguaggio del cinema, cui guarderanno diversi autori, soprattutto i registi hollywoodiani come Howard Hawks, John Huston, William Wyler, ed europei come Jean Renoir e Marcel Carné.
Se il dettaglio nel cinema aveva ricevuto una valenza simbolica con Sergej Ejzenštejn (Sciopero, 1924 e La corazzata Potemkin, 1926), un ruolo narrativo ellittico con F. W. Murnau (Aurora, 1927), Lang si spinge oltre. Egli fonde, in un’unica inquadratura, più figure retoriche. Come nell’incipit del film. Elsie è uscita da scuola e si intrattiene, sul marciapiede, a giocare con la palla lanciandola contro un affissione. Il manifesto reca l’avviso di una taglia di 10.000 marchi per informazioni sul misterioso assassino di bambine.
Il manifesto viene gradualmente oscurato, espressionisticamente, dalla nera ombra di un uomo con cappello. In quest’inquadratura abbiamo almeno tre figure retoriche sovrapposte: simbolo, sineddoche e prolessi. L’ombra nera dell’assassino è simbolo del male ad opera dell’uomo; l’ombra è anche parte dell’assassino (la sineddoche); la voice-over dell’uomo, falsamente educata ma terribilmente angosciante, e la risposta innocente della bambina (ombra: “Che bella palla” e “Come ti chiami?”; la piccola: “Elsie Beckman”) esibiscono un chiaro ruolo prolettico.
Lang ricorre anche allo scollamento tra suono e immagine, facendo entrare in campo prima il suono e poi l’immagine, codifica una sorta di asincrono (il primo fu Dante nell’Inferno). Il Mostro fischietta un’aria (tratta del Peer Gynt di Edvard Grieg) e poi arriva la sua inquietante tarchiata sagoma, chiusa dentro cappotto e cappello. Sappiamo che si sta avvicinando a una ignara bambina. Ciò crea una inedita suspense da film noir.
ALTRE INQUADRATURE INDIMENTICABILI
L’incipit di M- Il mostro di Düsseldorf (scritto da Lang con sua moglie, Thea von Harbou, la coautrice anche di Metropolis) è ricordato per altre indimenticabili inquadrature o sequenze innovative. In un interno vediamo una donna sola, che aspetta il ritorno della figlia da scuola. Prepara con cura la zuppa, guarda l’orologio a cucù che segna le 12.00, poi le 12.15, ancora le 13.15. La bambina non rientra. Due sue amichette stanno tornando da scuola, salgono di corsa, allegre, le scale del condominio: rispondono “non l’abbiamo vista” alla tremolante domanda della donna, “Avete visto Elsie?”
La mamma va alla finestra e chiama con tono sordo, “Elsie!” Elsie!”: Lang inquadra l’angosciante geometrica vuota tromba delle scale in plongée: sembra un pozzo senza fondo pronto a ingoiare; lo stenditoio deserto con bucato ad asciugare, tra questo si vede, in secondo piano, un immobile grembiule da bambina. Inquadrature simboliche e prolettiche a un tempo. Poi c’è quella, indimenticabile, della scodella vuota. Lang inquadra dall’alto il posto a tavola di Elsie, preparato con amore dalla mamma: la scodella vuota, il tovagliolo arrotolato nel cerchietto, le posate, la tazza per bere.
L’inquadratura successiva mostra la palla di Elsie che rotola lentamente in una porzione di prato spelacchiato e poi si ferma, priva di movimento; nel taglio successivo il palloncino-pupazzo gonfiabile, con il filo penzoloni, che il Mostro le ha comperato dal venditore cieco, è impigliato tra fili della luce, poi un refolo lo libera verso il cielo. Con tre inquadrature (scodella vuota; pallone che rotola; pupazzo-palloncino tra i fili della luce e poi verso il cielo) Lang ci ha detto, evitando il truculento o il melodramma, ricorrendo ancora all’apparato retorico (simbolo, sineddoche, ellissi), che Elsie non è tornata a casa; è stata violentata e uccisa e la sua anima è volata in cielo.
IL GIUSTO PROCESSO
Siccome i delinquenti della città vedono le loro attività illegali bloccate dalla polizia impegnata in gran forze in continue indagini e perquisizioni, alfine di trovare l’assassino delle bambine, decidono di cercarlo loro, l’assassino. Tramite l’invisibile esercito dei barboni, osservatori insospettabili. Individuato l’assassino (grazie al venditore cieco che ha riconosciuto il fischiettare del maniaco) e catturatolo (compatte e impareggiabili le sequenze nel grande stabile funzionalista: un omaggio di Lang alla sua parziale formazione di architetto), eccoci al processo messo su da un tribunale composto di comuni delinquenti.
È presieduto dallo Scassinatore (in tedesco Schränker: è il deciso e convincente Gustaf Gründgens) colui che ha diretto l’operazione, ricercato per tre omicidi. Egli spiega all’imputato Hans Beckert (Peter Lorre), il Mostro, che il loro è un processo giusto. Se lo processasse la giustizia ufficiale sarebbe, dopo pochi anni, in libertà di nuovo per via della mezza assoluzione per infermità mentale. E di nuovo inizierebbe “ad ammazzare bambine”. Quindi è corretto che siano i delinquenti, ossia il popolo, a giustiziarlo. “Questo è un giusto processo”, ribadisce il “presidente” del tribunale.
DIRITTO ALLA DIFESA
Il Mostro, in un monologo indimenticabile (forse la migliore interpretazione di Peter Lorre, nome d’arte dell’attore magiaro László Löwenstein), si difende, quasi piangendo, strabuzzando gli occhi, spiegando come le sue azioni non siano intenzionali, che una forza misteriosa “entra in me e mi costringe a fare quello che io non vorrei fare. […]. Poi, dopo, non ricordo più nulla”. Ovviamente la folla dei delinquenti-giuria popolare, non lo scusa, lo deride. Alcune donne, seriamente, gli chiedono: “Come pensi che ora vivano le madri cui hai ucciso le loro figlie?”.
La sceneggiatura processuale è ben equilibrata. Infatti il “presidente” ha assegnato un avvocato difensore a Beckert (un delinquente il cui soprannome è “l’Ubriacone”). Avvocato che sa ben argomentare dal punto di vista della filosofia del diritto: “Voi – rivolto ai suoi colleghi malfattori – non avete il diritto di sostituirvi ad un processo regolare. L’imputato ha diritto a un processo vero.”
LE APORIE ETICHE DEL NOVECENTO
Il film di Lang, pur partendo da fatti di cronaca, si offriva anche come metafora di una Germania sull’orlo del baratro. Nel Paese, scosso da anni di attentati, scioperi, scontri quotidiani tra comunisti e SA naziste, alla fine del 1930, mentre Lang girava, si attendeva una rivoluzione comunista sostenuta da Mosca, da Lenin in persona: due anni dopo la Germania vedrà Hitler salire al potere. Il film formulava interrogativi dibattuti nel sentire comune anche del terzo millennio.
Oggi si parla di giusto processo, di equa sanzione, di pena riabilitativa, della salvaguardia dei più indifesi; di sistemi democratici a volta farraginosi nella verifica della loro democraticità. La follia omicida del maniaco, ci diceva Fritz Lang, va bloccata; il malato curato; il processo offrire la massima garanzia per l’imputato ma al contempo applicare la legge con obiettività. Il potere legislativo emanare leggi equilibrate. È lecito opporre una giustizia del popolo a quella dello Stato, quando quest’ultima ci delude? Quale il confine, chiedeva ancora il regista austriaco, che due anni dopo fuggirà dal nazismo riparando prima in Francia e poi in Usa, tra clemenza e sanzione?