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Così possiamo disegnare la salute del futuro. Conversazione con Scaccabarozzi (Janssen)

Pharma Sanità Farmindustria

Innovazione e prevenzione. Questi i fondamenti per una sanità che sappia essere preparata per le prossime sfide, cui Janssen ha dedicato il progetto “Non c’è futuro senza”. Ne abbiamo parlato con Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia e presidente di Farmindustria

L’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo tutt’oggi ha messo in luce alcune aree di miglioramento del nostro Servizio sanitario nazionale. Al contempo però, ci ha insegnato quanto sia importante, per una sanità che sia davvero efficace ed efficiente, guardare al futuro e interrogarsi sulle soluzioni e le misure da adottare affinché la salute dei cittadini possa essere sempre garantita, sia nelle situazioni ordinarie sia in quelle emergenziali. Quali sono, dunque, gli interventi auspicabili, qualora non persino necessari, per la sanità del futuro? Ne abbiamo parlato con Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia e presidente di Farmindustria.

L’emergenza Covid ha mostrato alcuni limiti del SSN, ma anche la necessità di lavorare a un percorso di rinnovamento per costruire una sanità a prova di futuro. In considerazione del piano di investimenti che il governo ha destinato alla sanità dal Recovery fund, qual è il contributo da dare e quale, più in particolare, quello che darete voi?

La pandemia ha messo a dura prova il nostro sistema sanitario, ma ha anche fatto emergere la centralità della salute come bene collettivo. Nel corso degli anni, infatti, la salute è sempre stata considerata un costo e non un investimento. E i risultati, sanitari, sociali ed economici, sono sotto gli occhi di tutti. Credo dunque che dovremmo riflettere su come costruire un sistema sanitario più moderno, equo, sostenibile e resiliente, capace di attrarre le migliori risorse e competenze ma soprattutto di essere più vicino ai cittadini. E noi siamo pronti a dare il nostro contributo con un nuovo progetto, “Non c’è futuro senza”, che nasce proprio per interrogarsi e innescare un dibattito con tutti gli attori del mondo della salute su quelli che sono gli elementi imprescindibili per la salute dei cittadini e dei pazienti.

Quanto è importante, secondo lei, la collaborazione fra pubblico e privato? Crede possa fare la differenza?

Il Covid ci ha insegnato quanto sia importante fare sistema, soprattutto fra aziende e istituzioni. In questi mesi sono cambiate tante cose e si sono instaurati nuovi meccanismi di collaborazione. Come, ad esempio, quelli nel campo della ricerca, che hanno dimostrato come si possa arrivare velocemente ad approvare uno studio clinico – garantendo al contempo sempre lo stesso livello di qualità e sicurezza –, o quelli sulle modalità di assistenza ai pazienti. L’importanza sta nel cogliere il valore di queste forme di collaborazione e continuare a lavorare insieme anche dopo la pandemia. Perché di certo non c’è futuro senza un dialogo che sia costruttivo e aperto e che sia strumento di arricchimento reciproco tra tutti gli attori del sistema.

Soffermiamoci proprio sulla ricerca e di conseguenza sulla produzione. Cosa possiamo fare per migliorare il loro stato di salute?

Mai come quest’anno tutti hanno capito il valore della ricerca, fondamentale per aumentare e migliorare le possibilità di cura dei pazienti. Ma non solo. La ricerca consente ai nostri operatori sanitari di crescere e, non da meno, dà un contributo importante in termini di sostenibilità. Ovviamente, affinché questo trovi un risvolto pratico, serve che il sistema produttivo sia in grado di mettere a terra quanto offerto dalla ricerca.

Come?

In primis sperimentando tecnologie produttive sempre più all’avanguardia. Abbiamo visto con il Covid cosa significhi non avere cure o vaccini a disposizione e ancor più stiamo vedendo oggi cosa vuol dire invece averli. Il tessuto produttivo e industriale è fondamentale e l’Italia rappresenta in tal senso un’eccellenza.

Ha detto che ricerca e produzione impattano positivamente anche sulla sostenibilità. In che misura?

Le do qualche cifra. L’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha stimato che ogni anno investiamo circa 700 milioni in ricerca e per ogni euro investito se ne generano 2,8 per il sistema nazionale. Lo stesso vale per la produzione. A fronte di un’assistenza pubblica farmaceutica di 23,5 miliardi, la produzione ha raggiunto i 34 miliardi, guadagnando il primo posto in Europa. Il settore, inoltre, dà occupazione a 66mila persone e a oltre 130mila se consideriamo l’indotto.

E la vostra azienda è in linea con questi trend?

Nell’ultimo quinquennio abbiamo investito circa 218 milioni in ricerca e sviluppo e avviato 98 studi clinici. E sono oltre 630 i centri che hanno lavorato ai nostri progetti di ricerca. Secondo uno studio condotto nel 2018, Johnson&Johnson e Janssen hanno un impatto complessivo in Italia di 3,2 miliardi. E per ogni euro di Pil prodotto se ne generano 1,3 nel resto dell’economia, così come per ogni impiegato diretto nel comparto pharma se ne occupano 3,5 in maniera indiretta. Quindi, direi proprio di sì…

E cosa si può fare affinché nel prossimo futuro la ricerca abbia ancora maggiore supporto?

Probabilmente adeguare le normative nazionali e definire politiche industriali che siano certe e strutturate nel medio-lungo termine affinché le aziende possano operare in un contesto legislativo e conseguentemente operativo certo e stabile. E senza dover subire continui cambiamenti all’ordine del giorno.

Un difetto italiano col quale siamo spesso costretti a fare i conti…

A differenza di altri Paesi, che guadagnano ovviamente un notevole vantaggio competitivo. E questo vale sia per la ricerca che per la produzione.

Tra le direttrici del vostro progetto c’è la volontà di creare un sistema più vicino ai cittadini. In che modo?

Sono fermamente convinto che le aziende farmaceutiche possano avere un ruolo cruciale nell’ideare e mettere a disposizione, oltre alla propria ricerca e soluzioni terapeutiche, anche dei servizi che possano contribuire a un migliore funzionamento di tutto il sistema. Noi, ad esempio, sin dall’inizio della pandemia abbiamo tutelato la salute dei pazienti, che avevano necessità di recarsi in ospedale per accedere ai farmaci, attivando “Janssen a casa tua”, un servizio gratuito di consegna a domicilio dei farmaci a chi ne aveva bisogno, attivo su tutto il territorio nazionale. Oggi stiamo per lanciare Janssen a casa tua 2.0, che consente ai pazienti di aderire al programma direttamente attraverso il proprio medico.

Che ruolo può avere la digitalizzazione in questo percorso?

Sicuramente un ruolo centrale, soprattutto per la medicina di prossimità. Basti pensare alla telemedicina o all’utilità che può avere per i medici.

Per i medici?

Mi riferisco ad esempio alla possibilità di avere a disposizione informazioni precise e dettagliate sul singolo paziente affinché le decisioni siano personalizzate e su misura. Come Janssen abbiamo molti servizi che funzionano in tal senso. JCare, ad esempio, mette in collegamento diretto oncologi, urologi e radioterapisti per garantire un supporto costante, ma anche a trecentosessanta gradi, ai malati di carcinoma prostatico. Evitandogli tra l’altro di doversi recare in ospedale per effettuare tutte le visite necessarie.

La sostenibilità dei sistemi sanitari è un tema sempre più prioritario nell’agenda politica. In che modo investire nell’innovazione farmaceutica rappresenta un risparmio per il sistema?

Da sempre, come dicevamo pocanzi, in Italia salute e sanità sono state considerate un costo. Questo perché da un lato in pochissimi sanno che con il meccanismo del payback sono le aziende farmaceutiche a fornire un’importante percentuale di assistenza farmaceutica agli italiani, dall’altro perché con il sistema dei silos non è possibile fare una stima accurata di quanto si è speso ma al contempo di quanto si è risparmiato. Sarà questa una delle sfide del futuro: evitare che la sanità resti ancorata al passato e fare in modo che si adegui al contesto attuale, capendo che ha più senso che le imprese investano in ricerca piuttosto che andare a coprire le inefficienze di controllo della spesa pubblica…

Il paziente al centro. A che punto siamo con questo obiettivo?

Per Janssen la centralità del paziente è sempre stata fondamentale. Ma col tempo abbiamo capito qualcosa in più.

In che senso?

Che il paziente non deve essere al centro. È l’azienda che deve essere accanto al paziente. Me lo ha insegnato una cittadina e paziente, che fa parte di una associazione, e ne ho voluto fare tesoro. E lì ho capito quanto sia importante che la sanità cammini sempre al fianco dei pazienti, interagendo con loro e coinvolgendoli già a partire dal processo che va dalla nascita di un farmaco fino alle sue dinamiche di accesso. Si tratta di qualcosa che avviene ma in maniera ancora troppo parziale e credo che in questo si possa fare un importante passo avanti.

Cosa le ha insegnato questa pandemia, sia come uomo che come professionista?

Cito quanto disse papa Francesco all’inizio della pandemia: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Ecco, questa pandemia ci ha insegnato tante cose, fra cui quanto sia importante un sistema che non si faccia trovare impreparato dinanzi a un’emergenza. Non possiamo e non dobbiamo correre il rischio che accada una seconda volta.

Come?

Ridisegnando la salute del futuro, tutti insieme. Partendo dal presupposto che non c’è futuro senza salute.

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