Nel 1980, con la dichiarazione di Venezia, l’Ue in fasce compiva il suo più grande atto di politica estera. Oggi, di fronte al dramma di Gaza, si limita a dichiarazioni di circostanza. Ma l’Italia può fare di più. Il commento di Stefano Stefanini, senior advisor Ispi, già rappresentante permamente dell’Italia presso l’Ue
In Medio Oriente, pochi giorni di violenza inaudita spazzano via molte illusioni di politica miope. Di Israele, innanzitutto: della sicurezza senza pace. La pace con i palestinesi era legata alla soluzione dei due Stati. Benjamin Netanyahu pensa che non ci sia bisogno di soluzione e che Israele possa convivere, in sicurezza, con i palestinesi senza patria o con più d’una.
Seconda illusione, americana e occidentale: che l’accettazione di Israele da parte arabo-sunnita, suggellata dagli Accordi di Abramo, addomesticasse la questione palestinese.
Terza, israeliana, occidentale e araba: di riuscire a mettere fuori gioco l’Iran. Gaza sotto Hamas è invece diventata la testa di ponte di Teheran, incastonata fra Israele, Egitto e Mediterraneo.
Quarta, infine, europea: di contare ancora qualcosa nello scacchiere mediorientale.
La guerra fra Israele e Hamas mette spietatamente a nudo peso politico e responsabilità degli attori internazionali. Tanto per cambiare, ricadono soprattutto sulle spalle degli Stati Uniti. Come titolava lapidariamente Bloomberg Opinion Today del 15 maggio, “La crisi di Israele è il problema di Biden da risolvere”.
L’inviato speciale americano, Hady Amr, arrivava lo stesso giorno a Gerusalemme in pieno crescendo di ostilità, bombardamenti e razzi. Compito: negoziare un cessate il fuoco. Probabilmente ci riuscirà anche per reciproco esaurimento di opzioni belliche. Gli israeliani hanno colpito dall’aria i principali obiettivi e non vogliono entrare a Gaza con l’esercito esponendosi ai rischi di una guerriglia urbana asimmetrica. Hamas sta finendo le scorte di razzi; l’Iran non mancherà di rifornirle ma ci vuole tempo.
Nell’iniziativa diplomatica per far tacere le armi gli americani non sono soli. Vi sono impegnati anche i Paesi arabi, soprattutto Egitto e Qatar che hanno le maggiori leve di pressione su palestinesi e su Hamas. Non c’è molto spazio per altri, anche se non c’è dubbio che c’è chi si farebbe avanti ove l’occasione si presentasse. Due nomi a caso: Russia (Vladimir Putin ha buoni rapporti con Netanyahu) e Turchia. Se gli americani falliscono cercheranno di approfittarne.
Gli europei recitano a copione: rituali condanne della violenza e inviti alla moderazione, sostegno verbale alla mediazione americano-araba. Eppure, l’Unione europea ha una presenza importante a Gerusalemme. Ha un ruolo nei Territori palestinesi, cruciale al sostegno economico-finanziario dell’Autorità palestinese. Ma non è un ruolo politico. L’assenza dalla crisi riflette semplicemente questo stato di fatto. La stessa relativa timidezza nelle dichiarazioni europee, di Bruxelles come delle principali capitali, è in fondo saggia: meglio essere di poche parole quando non si ha voce in capitolo.
Non è sempre stato così. Anzi, era il contrario. Proprio sulla questione israelo-palestinese l’Europa segnò quello che resta il suo principale atto di politica estera: la Dichiarazione di Venezia del 1980 che apriva la strada al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat – rompendo su questo punto con gli Stati Uniti e facendo da battistrada agli accordi di Oslo del 1993.
Nel 1980 non era una “Unione”, si chiamava ancora Comunità economica, aveva solo nove membri, non aveva un Alto Rappresentante né un servizio diplomatico né strategie globali. Ma nomi, istituzioni, risorse e documenti sono pallidi sostituti di volontà e coesione politica. Che allora c’erano, con a bordo anche i britannici. Oggi latitano.
Oggi, gli europei sarebbero incapaci di una nuova Dichiarazione di Venezia. Infatti non ci provano nemmeno. Bruxelles ha uno strumento diplomatico di alta professionalità e con un’invidiabile rete di ambasciate; manca il manico politico. Il club ha molti membri (27) con sensibilità geopolitiche diverse e parcellizzate.
La politica estera non è come quella commerciale e non può essere decisa a maggioranza. Quindi ricade sul minimo comun denominatore di una pluralità di interessi nazionali diversificati. Brexit lascia una Ue monca di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza e media potenza militare e nucleare, più vocazione internazionale, e un Uk personaggio in cerca d’autore sul palcoscenico mondiale. Due debolezze non fanno una forza.
Proprio il Medio Oriente illustra plasticamente i due processi, paralleli e inversi, della politica estera europea: rafforzamento istituzionale e calo di peso politico. A Venezia e Oslo seguì per un paio di decenni il lungo, e purtroppo non risolutivo, “processo di pace” (Mepp) del “quartetto” di cui l’Ue faceva parte con Israele, Autorità palestinese e Usa. Il ruolo europeo si andava però progressivamente marginalizzando fino a sparire negli ultimi sviluppi, come gli Accordi di Abramo, in cui gli europei hanno fatto da spettatori.
L’Unione europea del 2021 ha un peso internazionale decisamente maggiore della Comunità economica del 1980. Ma, come si diceva un tempo – oggi di meno – della Germania, è un gigante economico, e regolamentare, e un nano politico. Avrà un ruolo determinante su temi fondamentali come i cambiamenti climatici, la ripresa economica post-Covid o la tassazione globale.
Teniamocela stretta. Difficilmente però andrà oltre il piccolo cabotaggio in politica estera. È bene che l’Italia cominci a riflettervi non per inseguire velleitarismi nazionali ma per cercare solidi ancoraggi internazionali che l’Ue non è in grado di offrire se non nei minimi termini. Che non possono bastare.