Xinjiang, Tibet, Hong Kong. L’Ue ruggisce a parole contro gli abusi cinesi ma si rassegna all’impotenza di fronte ai singoli veti. Ma non ci si può abituare a questa banalità del male. Il commento di Laura Harth
In Cina, sotto la guida di Xi Jinping, è in atto “una deriva autoritaria”. Così, nell’anno del 100° anniversario del Partito comunista cinese, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante Josep Borrell in una lettera ai membri del Consiglio europeo il 21 aprile scorso per illustrare l’EU Progress Report on China.
“La realtà è che l’Ue e la Cina hanno divergenze fondamentali, che si tratti dei loro sistemi economici e della gestione della globalizzazione, della democrazia e dei diritti umani, o di come trattare con Paesi terzi. Queste differenze sono destinate a rimanere per il prossimo futuro e non devono essere spazzate sotto il tappeto”, dicono i presidenti.
Troppo poco, troppo tardi? A solo quattro mesi dalla sottoscrizione in principio dell’Accordo complessivo sugli Investimenti (Cai) con la Repubblica popolare, vediamo ancora un’Unione europea alle prese con l’elaborazione di una posizione coerente e coesa verso il Dragone.
Da un lato le ripetute frustrazioni e dichiarazioni ufficiali dell’Alto Rappresentante Borrell per gli abusi di massa sempre più innegabili nello Xinjiang, in Tibet, a Hong Kong, dall’altro i dialoghi bilaterali tra leader come Angela Merkel o Emmanuel Macron e il loro omologo Xi Jinping dove queste “divergenze fondamentali” solitamente non trovano spazio.
Da una parte il Parlamento europeo, sempre più consolidato nella sua difesa dei valori e principi fondanti – nonché obblighi secondo Trattati, dall’altra alcune grandi aziende trainate dai consorzi teutonici, con la Volkswagen – primo azionista del Cai – che ribadisce con fermezza le sue intenzioni di rimanere operativi nello Xinjiang – anche se“non possono garantire di non essere coinvolti nei schemi massicci di lavoro forzato” – finché “è economicamente vantaggioso”.
Dalle implorazioni dei governi nazionali ai loro Parlamenti di non agire di testa proprio, ma di riferire sempre e solo alle decisioni congiunte in sede europeo – eg. lo stesso Consiglio europeo dove decidono gli stessi Capi di Stato all’ombra del controllo parlamentare – alla dichiarata impossibilità di agire dinanzi al veto di un singolo Stato membro.
Nella sfida geopolitica più grande del nostro tempo emergono allora tutte le impotenze e distorsioni dell’architettura europea.
Una riedizione della banalità del male. Uno stato d’animo perenne per cui nessuno è deputato ad assumersi le responsabilità e che ci condanna a una specie di purgatorio geopolitico. Né di qua, né troppo di là: l’essenza dell’autonomia strategica secondo Macron.
Sottomissione o coraggio? Questo il grande interrogativo che si impone al blocco intero, ma anche ad ogni singola nazione al suo interno.
Come abbiamo avvertito, la funzione extra-territoriale delle leggi di sicurezza cinesi sta avendo i suoi primi impatti concreti sul suolo europeo, con cittadini che vedono la loro libertà di movimento, pensiero ed opinione ristretta dal lungo braccio di Pechino. Il veto dell’Ungheria all’ultimo Consiglio europeo ha poi impedito agli altri Stati membri di ritirare gli accordi di estradizione che hanno concluso in modo del tutto bilaterale con Pechino.
Proprio il 1 maggio, il Washington Post ha pubblicato una lunga denuncia del lavoro forzato dei cinesi lungo la nuova Via della Seta, con abusi continui, sequestro dei passaporti, punizioni e rieducazione mentale per coloro che si oppongono a tali trattamenti o reclamano un’inesistente busta paga.
Ma mentre dalla Farnesina c’è chi chiede ai Parlamentari di non assumere posizioni sul genocidio degli Uiguri al di fuori del coro formale europeo, dall’Italia – Repubblica fondata sul lavoro, che tutta da sola ha sottoscritto il famigerato Memorandum of Understanding sulla Belt and Road Initiative – non arriva un meh.
Non si può continuare a sostenere una presunta impotenza. Queste sono solo alcuni esempi di una profonda ipocrisia basata sulla convenienza. Una banalità del male al quale l’attuale assetto ci vuole condannare tutti.
Nessun esempio più eclatante in quel senso che la svolta green dell’Unione europea. Accompagnata da investimenti pubblici ingenti, si appoggia pesantemente sulla Repubblica popolare, e attraverso essa sul lavoro forzato degli Uiguri che in Cina ormai si possono comprare online in pacchetti da 50 o 100 alla volta.
Sull’estrazione delle terre rare, spesso estratte con gravi violazioni dei diritti umani e danni ecologici in vari parti del mondo. O sui metodi di produzione che portano la Cina a detenere il primato per l’inquinamento nel mondo.
Ma il mantra “un pianeta, un popolo”, vale evidentemente solo per il nostro backyard. Poco importa se condanniamo tutti i contribuenti europei – volenti o nolenti – al collaborazionismo con un regime che da settant’anni calpesta la dignità umana e che qualcuno scopre oggi essere “alle prese con una deriva autoritaria”.
È ora che tutti si assumano le proprie responsabilità e ritirano il dito sempre puntato su altri.
Il 5 maggio la Commissione europea, guidata nell’iniziativa dai Commissari Margarethe Vestager e Thierry Breton, dovrebbe presentare un nuovo piano strategico industriale che mira a ridurre le dipendenze di rifornimento dell’Ue dalla Cina e altri fornitori stranieri in sei settori strategici per il futuro dell’Europa. Speriamo sia l’inizio di una svolta vera e complessiva.