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Stellantis punta su Taiwan. Dove sono i difensori delle aziende strategiche?

Il gruppo franco-italiano stringe un accordo con la taiwanese Foxconn: software e hardware (ovvero batterie) per le auto saranno prodotti insieme. Vuol dire che Italia, Europa e Stati Uniti hanno gettato la spugna: l’auto del futuro non potrà che venire dalla Cina. Che ne sarà di un settore e un indotto che impiegano decine di migliaia di persone?

Che cos’è un’auto elettrica? Semplificando, è un pacco batterie con una carrozzeria intorno, dotato di un software. Rispetto alle auto tradizionali, è un prodotto molto più sofisticato, e allo stesso tempo molto più semplice: la ricerca e lo sviluppo si concentrano sull’efficienza delle batterie e sull’evoluzione del software. Il resto è residuale.

Da una prospettiva industriale europea, è un disastro. Gli oltre cento anni di investimenti di Fiat, VolksWagen, Bmw, Mercedes, e delle altre case automobilistiche, sono stati spazzati via dalla decisione politica di azzerare le emissioni dei veicoli nell’arco di una decina d’anni, in ossequio agli obiettivi di Parigi. Noi europei sapevamo fare una cosa: produrre motori a scoppio sempre più performanti ed efficienti, ma abbiamo lasciato che la produzione delle batterie (spesso alimentata da centrali a carbone) diventasse un monopolio cinese. Anche sul software non siamo messi bene: domina sempre la Cina, con la pirotecnica eccezione della Tesla di Elon Musk, che non a caso vale in borsa più di tutte le aziende del settore messe insieme, nonostante venda poche centinaia di migliaia di auto a fronte di un mercato da decine di milioni.

Il fatto che Stellantis (la società nata dalla fusione di Fca e Psa) abbia creato una joint venture con la taiwanese Foxconn non coglie di sorpresa. A gennaio 2020, prima che l’operazione con i francesi fosse portata a termine, il gruppo guidato da John Elkann aveva già intavolato una trattativa con Hon Hai – la sussidiaria di Foxconn che si occupa di componenti automobilistiche.

Ora siamo arrivati al dunque: con Mobile Drive le due aziende condivideranno l’infotainment connesso in 5G, l’internet of vehicles, le piattaforme cloud e il software. L’accordo prevede che la nuova società (con sede in Olanda) fornirà anche l’hardware per i 14 marchi di Stellantis. E Foxconn, ma che coincidenza, è ai primi posti nella produzione di batterie e dal 2024 inizierà a produrre quelle di ultima generazione, a stato solido.

Un anno fa, come oggi, non ci pare che la politica o gli industriali italiani abbiano sollevato un sopracciglio. Eppure per la vendita ai cinesi di Faw dei mezzi Iveco – sempre controllati dalla Exor di Elkann – il governo aveva annunciato l’applicazione del Golden Power, di fatto mandando a monte l’affare.

Il paradosso è che è molto più delicata l’operazione Stellantis-Foxconn di quella Iveco-Faw: Exor ha ancora intenzione di cedere Iveco, cambierà solo il compratore, e dunque i timori sull’occupazione e sulla filiera dei mezzi militari sono solo rinviati. La società che nasce insieme al colosso che produce gli iPhone invece è strategica e avrà conseguenze per decenni. È l’ammissione che Italia, Europa e Stati Uniti non hanno le risorse tecnologiche per sviluppare l’auto del futuro.

E mentre i capi di governo e della Commissione europea parlano di sovranità tecnologica, un gruppo che include Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Peugeot, Citroen, Opel, Jeep, Chrysler, non ha economie di scala sufficienti per sfidare la Cina. Per di più in un mercato che Pechino non era mai riuscito a dominare, nonostante la sua potenza industriale. A differenza dei semiconduttori, infatti, non c’è una superiorità tecnologica cinese nell’automotive. Siamo noi che avendo scelto una strada più ecologica (solo sulla carta) stiamo sacrificando progetti e proprietà intellettuale e li offriamo a un rivale geopolitico.

La distruzione dell’industria delle telecomunicazioni europea a vantaggio di quella asiatica; i miliardi che gli italiani hanno pagato nelle bollette elettriche che sono finiti a sussidiare i pannelli solari cinesi; il fatto che un’auto elettrica inquini (nel suo intero ciclo vitale) più di un diesel di ultima generazione: tutto questo non ci ha insegnato nulla, anzi ci siamo di nuovo legati mani e piedi a slogan troppo superficiali sulla transizione energetica.

E così, mentre leggiamo il bando che potrebbe affidare le comunicazioni di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria a operatori che hanno scelto la tecnologia 5G cinese, la domanda è la stessa: esiste davvero la difesa del nostro perimetro strategico dalle incursioni di un regime che usa la forza di un gigantesco e inaccessibile mercato per conquistare intere industrie? O è solo un ritornello con cui cullarci mentre vediamo un altro settore, e decine di migliaia di posti di lavoro, sfuggirci davanti agli occhi?

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