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Stellantis, i pochi manager italiani e la catena del valore. Scrive Cazzola

Desta qualche preoccupazione il fatto che su 120 nuovi manager di prima linea in Stellantis solo 12 sono italiani, la metà di quelli di nazionalità francese. Se la logica che presiede alle forniture e agli approvvigionamenti fosse quella del km 0, Torino potrebbe avere dei problemi. Ma Parigi non riposerebbe tranquilla… Il commento di Giuliano Cazzola

Alla notizia riportata dalla newsletter del Corriere di Torino, Stellantis si appresta ad assumere ben 120 manager di prima linea soprattutto per quanto riguarda le forniture e i servizi – parecchie imprese della filiera non hanno esitato a catalogare i profili di queste persone che decideranno della continuità della loro attività produttiva. Ovviamente il primo requisito osservato è stato quello anagrafico.

Ha destato allora qualche preoccupazione notare che solo 12 dei nuovi manager sono italiani, la metà di quelli di nazionalità francese. Se la logica che presiede alle forniture e agli approvvigionamenti fosse quella del km 0 rispetto a dove abita o a dove è nato il manager, verrebbe da dire che se Torino potrebbe avere dei problemi, neppure Parigi potrebbe riposare in sicurezza, perché la grande maggioranza dei dispensatori di commesse sarebbe proveniente da ogni angolo del pianeta.

Già una decina di anni or sono la Fiat aveva 190.014 dipendenti di cui meno della metà (80.434) in Italia. Anche nel settore dell’auto – con 34.600 i dipendenti italiani a fronte di un totale, nel mondo, di 57.596 – non era particolarmente squilibrata la ripartizione degli organici. Pertanto la Fiat, prima, la Fca dopo, si muovevano già nell’ambito di una significativa dislocazione internazionale delle risorse e dei centri di produzione e commercializzazione.

Poi – diciamoci la verità – un manager di prima linea di una multinazionale dell’automotive, non è legato alla visione dell’albero che vedeva dalla finestra della casa natale. È un cittadino del mondo. Per l’incarico che svolge in un settore sottoposto ad una durissima competizione sul mercato globale, è tenuto professionalmente a ricercare il miglior prodotto al minor costo possibile; non ha nessun interesse – anche sul piano economico, con riguardo ai benefit – a servirsi di un fornitore per mere ragioni di ‘’connazionalità’’ , se questo non gli garantisce un prodotto adeguato, che, nel complesso risulti più conveniente, rispetto a quello dei concorrenti.

Le imprese fornitrici italiane hanno tutto l’interesse a prestare la loro attività all’interno della filiera di una multinazionale perché così si allargano anche i loro potenziali mercati e si profila – nella transizione – la logica selettiva della concorrenza, che è pur sempre la strada migliore per crescere e migliorare. Del resto, dall’economia provengono segnali incoraggianti. Come ricorda il Centro Studi di Confindustria (CSC) le indagini qualitative condotte dall’Istat hanno evidenziato un generale e diffuso miglioramento delle valutazioni degli imprenditori sulle condizioni di attività nel manifatturiero.

Sono molto più favorevoli le attese, rispetto ai mesi scorsi, fattore questo che va messo in stretta relazione con l’accelerazione della campagna vaccinale e l’allentamento delle restrizioni conseguente a un progresso della situazione sanitaria in Italia. La fiducia delle imprese manifatturiere è salita di 3,5 punti rispetto a marzo, portandosi ampiamente sopra i livelli pre-Covid e al massimo dall’estate del 2018. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti che non devono essere sottovalutati: il saldo dei giudizi sui tempi di consegna e sull’insufficienza delle materie prime e dei semilavorati ha raggiunto i massimi storici.

Il suo aumento mette in luce un problema diffuso, ovvero la carenza di componenti che in questi mesi sta costringendo le imprese a rinviare una parte della produzione. Ne è un esempio la mancanza di microchip, una componente necessaria a fare funzionare il sistema elettronico delle auto, che sta mettendo in grave difficoltà l’intero settore automotive a livello globale. La carenza di microchip ha costretto la Fiat a sospendere la produzione nell’impianto di Melfi – che da solo produce la metà delle auto realizzate in Italia – per una settimana (3-10 maggio), con evidenti ricadute sull’intera filiera italiana. Per fare fronte temporaneamente alla crescente domanda le imprese stanno utilizzando le scorte di magazzino. Una dimostrazione evidente che le garanzie di fornitura non le dà il manager concittadino che ordina gli acquisti, ma le aziende che sanno stare al passo con la domanda del mercato.



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