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Distruggere le moschee per cancellare l’identità uigura. La bomba Reuters

Il processo di sinizzazione dello Xinjiang prosegue: Reuters ha potuto confermare la distruzione di 16.000 moschee nella regione. Un segnale che l’Occidente non può ignorare

Rinviata di una settimana dopo il massiccio attacco hacker della settimana scorsa, finalmente il Parlamento belga ha iniziato le audizioni in merito alla proposta di risoluzione del deputato Samuel Cogolati sul genocidio degli uiguri nello Xinjiang.

Agghiaccianti le testimonianze delle vittime dei crimini contro l’umanità del governo di Pechino, come quella di Qelbinur Sidiq, costretta a insegnare il mandarino in uno dei campi di “rieducazione” prima di riuscire a sfuggire: “Ho visto le torture. Il 90% dei detenuti avevano tra i 18 e 40 anni. Le guardie non li consideravano esseri umani. Ho dovuto aspettare quattro ore in fila per essere forzatamente sterilizzata. Non lo potrò mai scordare. Mia sorella e mio fratello sono stati minacciati. Nelle ultime due settimane ho ricevuto continue intimidazioni affinché non venissi a testimoniare. Denuncio i crimini della Cina mettendo a rischio la mia vita e quella della mia famiglia. Quel che vi racconto oggi non è che una piccola parte dei crimini commessi del governo cinese. Sono una dei pochi fortunati riusciti a sfuggire a questi crimini. Faccio appello a tutti i Paesi, compreso il Belgio, a denunciare i crimini cinesi contro il popolo uiguro come un genocidio. Auspico che la comunità internazionale si occupi di questa questione. Si tratta di una vostra responsabilità come esseri umani”.

Ovviamente, anche al Parlamento belga non mancano gli scettici. I partiti della sinistra estrema – PvdA e PTB – rincorrono alla difesa del Partito comunista cinese, citando le dichiarazioni del governo di Pechino e i resoconti dei pochi osservatori occidentali ancora ammessi nel Paese e nella regione dello Xinjiang “per raccontare la Cina bene”, condizione che il Pcc ripete da mesi dinanzi le richieste incessanti dell’Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet per un’indagine internazionale indipendente.

Dimostra come ripetere i mantra circa la lotta contro i terroristi e separatisti – definizione per cui bastano la barba lunga, un familiare all’estero, recarsi alla moschea per assistere ai funerali di un parente, come testimoniano i documenti governativi trapelati da Pechino –, denunciare le fonti americane come imperialiste estremiste e rivendicare la bellezza dello Xinjiang “riformato” non sono più prerogative esclusive dei canali di propaganda cinese come la televisione di partito Cgtn o i canali social delle varie rappresentanze diplomatiche (vale la pena dare un’occhiata alla pagina Facebook o Twitter dell’ambasciata cinese in Italia, da alcune settimane – indubbiamente visto il dibattito alla commissione Affari esteri della Camera su una mozione simile a quella belga – intensamente impegnate nel propagandare il messaggio “giusto” sullo Xinjiang).

Più efficaci, infatti, le voci estere che si prestano a propagandare gli stessi messaggi. “Prendere in prestito una barca per andare nel mare” il vecchio detto maoista che Xi Jinping ha messo al cuore della sua strategia di moral suasion in tutto il mondo. Dagli accordi segreti con i media tradizionali indigeni (mentre in Italia il silenzio sul tema regna ancora supremo, persino il New York Times ha rimarcato come la situazione italiana a riguardo è veramente preoccupante) ai testimonial doc come la recente “vacanza” del tutto indipendente nello Xinjiang del professor Michele Geraci, già sottosegretario e noto sponsor del Memorandum d’intesa sulla Via della Seta (ma ha tenuto a sottolineare che le due questioni sono del tutto slegate).

In diversi podcast e interviste, tra un naan e un taxi, il professor Geraci ci ha raccontato come la situazione nello Xinjiang gli pareva del tutto normale, anzi bellissima. Proprio come i balli felici degli uiguri alla fine del Ramadan che la televisione statale cinese ha mandato in mondovisione. Prove certe dei pregiudizi che tanti occidentali portano nei confronti del glorioso Partito comunista cinese, i quali invece di seguire nelle orme di personaggi come Geraci, preferiscono dare ascolto e voce alle vittime del regime sanguinario.

È la ragione per la quale lo stesso Partito ha vietato l’ingresso nel Paese o nella regione a tante persone, da giornalisti a parlamentari, alla stessa Onu. Meno male, grazie ai documenti che trapelano per mano di coraggiosi dissidenti nonostante il regime sempre più repressivo e onnipresente, alle testimonianze strazianti delle vittime, ai ricercatori indipendenti nel mondo, e ad alcuni giornalisti che per qualche ora o minuto riescono a sollevare il velo della propaganda che Pechino cerchi di stendere sulla regione – pratica che ricorda fin troppo lo stratagemma ingannevole dei nazisti del ghetto modello di Terezin.

Così ancora questa settimana una squadra della Reuters, nonostante le barriere, i controlli e i tour guidati del Pcc, ha potuto confermare almeno in parte quanto l’Aspi ha denunciato l’anno scorso circa la distruzione completa o parziale di 16.000 moschee nella regione. Quanto rimasto spesso sinizzato e sotto stretto controllo, con esigenza di registrazione prima di entrare. In un Paese dove la frequentazione della moschea è segno sufficiente di estremismo – e quindi ragione per spedizione in un campo di rieducazione –, tali resoconti di primo piano non fanno che confermare quanto le affermazioni del Pcc – o di egregi suoi ospiti come il professor Geraci – circa la libertà di religione siano palesemente falsi.

O il rapporto In Broad Daylight: Uyghur Forced Labor and Global Solar Supply Chains– pubblicato venerdì scorso da Laura Murphy, professore in diritti umani e schiavitù moderna all’Helena Kennedy Centre for International Justice alla Sheffield Hallam University, e dall’analista di catene di approvvigionamento Nyrola Elima, la quale per 19 anni ha vissuto nello Xinjiang – che conferma le accuse circa l’utilizzo del lavoro forzato (e il carbone sporco) per la produzione dei componenti basi per i pannelli solari, con lo Xinjiang che produce quasi la metà del fabbisogno mondiale del polisilicio di grado solare. Ovviamente per Pechino, il rapporto indipendente di un ennesimo istituto universitario è solo prova dell’“agenda maliziosa occidentale” nei confronti della Cina.

Sono invece solo gli ultimi esempi di conferme che continuano ad arrivare e che servono come risposta dinanzi alle legittime domande che sorgono a tanti. In mancanza di una indagine imparziale internazionale e trasparente, è giusto che rimangano dei dubbi circa la magnitudine dei crimini perpetrati. Va sottolineato però come negli ultimi quattro anni, non vi è stato una singola smentita credibile – quindi non parte della macchina di propaganda del Pcc – delle accuse avanzate dalle vittime. Di smentite circa le menzogne continue del Pcc invece è pieno. Tant’è che a volte è il Governo cinese stesso che – purtroppo a distanza di anni – deve riconoscere che qualche verità vi era, come quando riconobbe l’esistenza dei campi nell’ottobre 2018, dopo due anni di smentite serrate.

L’appello lanciato da Qelbinur Sidiq si impone a tutti noi. Si tratta di una nostra responsabilità come esseri umani. Siamo pronti ad accoglierlo?


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