Gli Stati Uniti di Joe Biden stanno dando segnali su un aumento di attenzione al dossier Libia, dove entro poco tempo potrebbero riaprire l’ambasciata e riprendere le attività diplomatiche sul posto
A sette anni dalla chiusura dell’ambasciata di Tripoli, a nove dalla tragedia, ferita ancora aperta, dell’uccisione del console di Bengasi Chris Stevens, gli Stati Uniti sembrano tornati a interessarsi alla Libia. Avvicinamento diplomatico che non segna un coinvolgimento ampio, ma delinea un controllato cambio di policy. Se con Donald Trump l’interesse era minimo, legato alla lotta alle dinamiche terroristiche e con uno scivolone sul semi-sostegno ai ribelli anti-Onu, con Joe Biden qualcosa pare stia cambiando. Testimonianze nella nomina di un inviato speciale — l’ambasciatore già operante da Tunisi Richard Norland — il primo dopo Jonathan Winer sotto Barack Obama; o nella visita del vice segretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente, Joey Hood, il più alto funzionario ad andare a Tripoli dal 2014.
In tutto è complice anche il lavoro del governo Dabaiba, le cui attività traggono i frutti del cessate il fuoco dell’ultimo scontro Tripolitania-Cirenaica e viaggiano sotto egida Onu — l’esecutivo è uscito dal voto del meccanismo del Foro di dialogo libico che le Nazioni Unite hanno costruito a Ginevra per dare impulso alla stabilizzazione (un lavoro negoziale che recentemente il dipartimento di Stato ha definito “storico”). Gli americani hanno intanto schierato una squadra nella capitale libica per elaborare la complicata logistica della riapertura dell’ambasciata.
Un altro cambiamento riguarda la postura nei confronti di quegli attori esterni coinvolti nel dossier. Se l’amministrazione Trump aveva scelto quasi di non trattare pubblicamente la questione con i paesi stranieri presenti sui due lati dello scontro, quella Biden sembra aver ingaggiato la questione. Il ruolo svolto da Turchia e Qatar sul lato della Tripolitania a difesa del governo onusiano, e soprattutto da Emirati Arabi, Egitto e Russia su quello della Cirenaica — a sostegno armato della milizia ribelle che intendeva rovesciare il precedente governo onusiano di Tripoli — è considerato uno dei problemi di fondo. Con ripercussioni sulle questioni securitarie interne (che sono quelle che rendono complicata la presenza diplomatica sul campo, secondo Washington).
La violazione di un embargo sulle armi delle Nazioni Unite da parte di quei Paesi è stata più volte evidenziata dal Palazzo di Vetro, che adesso trova nella Casa Bianca una sponda attiva. Di più: il Pentagono si sta dimostrando piuttosto interessato all’operazione europea “Irini” che sotto la guida del l’ammiraglia italiano Fabio Agostini sta cercando di controllare quelle violazioni. Un abbinamento delle attività europee con quelle di AfriCom sarebbe un messaggio ulteriore, oltre che un aumento dell’attenzione e attività americana sulla Libia. Se ne parla, anche perché significherebbe curare il dossier non solo in un’ottica legata al paese in sé, ma a tutta quella regione affacciata al Mediterraneo.
Il movimento di mercenari da Ciad, Sudan e Siria spiega da sé le preoccupazioni. La sovrapposizione potenziale con crisi istituzionali come quelle in Ciad e Mali, o quella economico-sociale in Tunisia. La presenza di gruppi jihadisti che complicano il contesto securitario regionale. L’incunearsi della Russia che dal fronte della Cirenaica apre una postazione in mezzo al bacino mediterraneo davanti a strutture strategiche Nato e Usa. Elementi di valore, tenuti adesso piuttosto in considerazione a Washington — dove con Biden il tema delle alleanze è tornato centrale.
Questione non semplice comunque, se si considera il fronte interno al Congresso e tra l’elettorato. I repubblicani alla Camera hanno avviato sei indagini sulla gestione della morte di Stevens da parte dell’amministrazione Obama. Una ferita aperta tra gli americani, che vedono la Libia come tra gli impegni tutt’altro che necessari per il loro paese. “Il nostro intento è quello di iniziare a riprendere le operazioni in Libia non appena la situazione di sicurezza lo consentirà e abbiamo le misure di sicurezza necessarie in atto”, ha detto un portavoce del dipartimento di Stato alla NBC. “Il processo affinché ciò avvenga, tuttavia, richiede un’attenta pianificazione logistica e di sicurezza, oltre al coordinamento tra agenzie per soddisfare i requisiti di sicurezza e legali”.
Norland lavora da Tunisi, viaggia a Tripoli solo con uno scudo di bodyguard di Pentagono e Cia, si muove solo per estrema necessità. Mentre l’Ue e altri paesi hanno riaperto negli ultimi mesi le loro sedi diplomatiche in Libia — in questo l’Italia è sempre stata un passo più avanti, non avendo mai chiuso l’ambasciata e programmando la riapertura del consolato di Bengasi e di un altro nel Fezzan. Sicurezza, dunque, innanzitutto: ma anche priorità tattico-strategiche su cui l’amministrazione Biden riflette (mentre quella Trump voleva ignorare anche in nome della ricerca continua del facile consenso).
Operare senza un’ambasciata mette un governo in una posizione di svantaggio e lo priva di un quadro completo della situazione sul campo. Dal dipartimento di Stato ci sono anche voci critiche su questo: non esserci potrebbe diventare un problema, anche solo per difficoltà di dialogo e coordinamento con le strutture governative libiche. “È imbarazzante che non ci siamo”, ha detto quel funzionario: “È un male per la politica estera degli Stati Uniti. È un male per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. È un male per il paese ospitante. È un male per la regione”.
Tra l’altro ora gli Stati Uniti dovranno spingere i propri partner, inclusi gli Emirati Arabi Uniti, e gli avversari a smettere di intromettersi in Libia, secondo l’accordo di cessate il fuoco onusiano, e questo diventa più complesso senza presenza sul terreno. Ma la Casa Bianca ha anche chiarito che intende investire meno tempo e sforzi in Medio Oriente per concentrarsi sul contrasto alla Cina. Sarà la Libia un dossier in cima all’agenda, anche per ristabilire i bilanciamenti davanti ad alcuni alleati? La presenza dei contractor russi della Wagner sarà per Washington sufficiente per alzare il livello di priorità strategica sul dossier libico? Interrogativi la cui risposta è utile anche per l’Italia, che dalla Libia proietta la propria politica estera.