Un duro comunicato dell’ambasciata cinese a Roma tuona contro una risoluzione della Commissione Esteri della Camera che condanna la persecuzione degli uiguri in Xinjiang, “ingerenza negli affari interni cinesi”. E tradisce il nervosismo per un atto politico che può scrivere una nuova pagina dei rapporti bilaterali
Fatevi gli affari vostri. Dalla Cina un messaggio (poco) in codice all’Italia. Un comunicato dell’ambasciata cinese a Roma tira una dura stoccata alla Commissione Esteri della Camera, “colpevole” di aver detto la sua sulla persecuzione degli uiguri nello Xinjiang.
Una risoluzione votata all’unanimità mercoledì ha condannato “ogni genere di violazione dei diritti umani praticata da uno Stato nei confronti degli appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa” e chiesto un’indagine indipendente sui “campi di rieducazione” nella regione della Cina Nord-occidentale.
A Pechino non hanno gradito. Di qui un comunicato al vetriolo della missione in Italia per manifestare il “risoluto malcontento” e la “ferma obbiezione”. Con quella risoluzione il Parlamento italiano, sostiene la nota, avrebbe fatto il passo più lungo della gamba “diffamando la Cina e ingerendo negli affari interni cinesi con il pretesto delle cosiddette questioni relative ai diritti umani”.
“Lo Xinjiang è il territorio della Cina e i suoi affari sono puramente affari interni della Cina, che non ammettono interferenze da parte di forze esterne”, tuona l’ambasciata guidata da Li Junhua. “Ci auguriamo che la Commissione Esteri mostri il dovuto rispetto per i fatti, ascolti la voce di 25 milioni di cittadini di vari gruppi etnici dello Xinjiang, operi per rafforzare l’amicizia tra il popolo cinese e quello italiano e contribuisca a promuovere la cooperazione di mutuo vantaggio tra i due paesi”.
Un copione già visto. Non è infatti la prima volta che le feluche cinesi di stanza a via Bruxelles rispondono a tono alle “ingerenze” della politica italiana su tematiche che, secondo Pechino, devono restare al di fuori dei rapporti bilaterali, come la violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a Hong Kong, in Xinjiang o in Tibet.
La risoluzione italiana chiede al governo Draghi una “ferma presa di posizione” contro i soprusi in Xinjiang e ai partner dell’Ue di accertare nelle sedi internazionali i casi sospetti di violazione domestica sistematica dei diritti umani” e di sostenere “la richiesta di accesso libero e senza restrizioni allo Xinjiang per l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite”. Non c’è la parola “genocidio”: l’hanno usata i governi di Canada e Stati Uniti e, primo in Europa, il Parlamento inglese, ma in Italia divide le forze politiche e si è scelto di evitare.
Per l’ambasciata cinese i campi di rieducazione degli uiguri testimoniati da inchieste indipendenti della stampa internazionale sono semplicemente il segno della “lotta al terrorismo violento, al separatismo e alla radicalizzazione”.
I toni particolarmente severi del comunicato tradiscono l’irritazione per la portata politica della risoluzione. Che è un atto di indirizzo, ma pur sempre uno dei primi che, sul tema del rispetto dei diritti umani in Cina, ha trovato l’unanime consenso di tutti i partiti italiani, compresi quelli come il Movimento Cinque Stelle che in passato hanno spesso deciso di non esporsi.