Dopo l’acquisizione di Autostrade sarebbe sbagliato demonizzare l’intervento privato, ma va chiarito invece il perimetro nel quale si muoverà lo Stato. Il commento di Stefano Cianciotta, presidente Osservatorio Infrastrutture Confassociazioni e Abruzzo Sviluppo SpA
Il ritorno di Autostrade in campo allo Stato pone due questioni rilevanti. La prima attiene alle competenze dello Stato nella gestione delle infrastrutture e alle modalità con le quali eserciterà questa prerogativa. La seconda, invece, è relativa al contributo degli investitori privati alla realizzazione e alla gestione di nuove infrastrutture e all’affidabilità che a livello internazionale offre il nostro Paese, che dopo un trentennio di privatizzazioni forzate sembra essere tornato ai tempi dello Stato Padrone.
Cominciamo con il dire che lo Stato deve fare lo Stato, che deve rispettare e sottostare alle regole che pone, senza alterare il regime di concorrenza, che ad esempio ha consentito ad Alitalia di godere di un privilegio indubbio rispetto ai suoi concorrenti, anche italiani (si veda il caso Air Italy).
Allo Stato Padrone, che gestisce tutto, preferisco lo Stato minimo che fissa le regole, non le cambia in corso d’opera e controlla in modo serio e rigoroso l’operato del privato. Perché lo Stato deve fare i controlli. E in questi quasi venti di concessioni autostradali i contratti sono stati secretati. Perché e in nome di quale principio superiore? Abbiamo conosciuto l’entità della redditività record dei concessionari solo dopo il crollo del Ponte Morandi. Anche lo Stato quindi ha le sue responsabilità. Avrebbe dovuto tutelare l’interesse generale sotto il profilo economico, ma la sua condotta è stata omissiva.
Proprio per queste ragioni all’inizio del 2018 (prima quindi della tragedia del Morandi) chiedemmo come Osservatorio Nazionale sulle Infrastrutture all’allora ministro Del Rio di procedere alla revisione dei contratti di concessione, anche alla luce allora della proposta di linea guida Anac sul monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico-privato.
Se l’impianto normativo che regola le concessioni appariva già vetusto, perché nel frattempo si erano modificati i termini del contratto (si pensi ad esempio ai terremoti che si sono succeduti dal 2009, e che hanno determinato sui tronchi autostradali A24 e A25 onerosi interventi di manutenzione straordinaria, non prevedibili all’epoca della sottoscrizione del contratto di concessione), affermavamo che non si poteva scaricare questa anomalia sui fruitori del servizio, imprese e cittadini.
La linea guida Anac interveniva proprio sulla revisione dei contratti delle concessioni e sulla disciplina dei contratti di partenariato pubblico-privato, definiti all’art. 3 del Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (il cosiddetto Codice dei Contratti).
In particolare nella II parte della linea guida si individuavano proprio gli strumenti per favorire non solo il controllo e il monitoraggio economico delle attività del concessionario, ma soprattutto veniva indicata quale direzione intraprendere nel caso di revisione del contratto, causata dalla inadempienza o inefficacia delle clausole contrattuali preesistenti, perché, ad esempio, sono venute meno le modalità che regolavano il rapporto ex ante.
La manutenzione, infatti, è un argomento sempre di più centrale nella gestione delle infrastrutture italiane, anche alla luce dei vari crolli di ponti e di viadotti che si sono succeduti sui vari tratti stradali ed autostradali italiani, a causa della loro vetustà e della non sempre rigorosa attenzione dovuta alla manutenzione. L’Anac anche per questo ha insistito in modo puntuale sulla definizione della matrice dei rischi come strumento di controllo, sulla sua corretta analisi ed interpretazione, sul flusso di informazioni per il monitoraggio.
La rete stradale italiana è particolarmente vetusta, poiché solo il 10% delle infrastrutture autostradali e il 13% di quella extraurbana nazionale sono state realizzati negli ultimi 25 anni.
La spesa in Italia è agli ultimi posti in Europa in percentuale rispetto al PIL. L’Italia è terzultima assieme alla Spagna con 1,8%. Solo Irlanda e Portogallo fanno peggio. Se la media europea è del 2,7%, in alcuni Paesi nordici e baltici e sorprendentemente anche in Grecia invece si supera il 4%. Al primo posto c’è l’Estonia con il 5,6% degli investimenti, concentrate in prevalenza nelle infrastrutture digitali. Nel 2009 l’Italia investiva il 3,4% in infrastrutture.
Gli interventi sulle infrastrutture hanno un notevole effetto moltiplicatore, fino a 2.5 volte in valore sul Pil. In Italia il settore risulta ancora parzialmente sottosviluppato: l’incidenza degli investimenti in infrastrutture sul Pil in Italia è del 5,2% per quelli privati, rispetto alla media Ue che si attesta sul 7%.
Il settore infrastrutturale italiano è considerato un mercato chiave per i principali investitori istituzionali globali ed è reso attrattivo sia dal gap tra infrastrutture esistenti e infrastrutture necessarie sia dalle maggiori opportunità esistenti rispetto ad altri Paesi con economie mature, dove un processo di consolidamento è già in atto da anni.
Gli investitori, come riportato di recente da una ricerca promossa da EY, sono attratti da segmenti maturi come autostrade (57%), ferrovie (54%) e fonti rinnovabili (75%), così come dal settore ospedaliero (66%) in ascesa anche a causa della pandemia e dall’invecchiamento della popolazione.
Dopo l’acquisizione di Autostrade sarebbe quindi sbagliato demonizzare l’intervento privato, ma va chiarito invece il perimetro nel quale si muoverà lo Stato.