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Gli stop a Bitcoin servono a poco o nulla. Una lezione dal caso inglese

Anche Londra prova a imbrigliare la criptomoneta, mettendo al bando la piattaforma sino-canadese Binance. Ma per una giurisdizione che chiude la porta, ce ne è un’altra che la apre, anche ai cittadini di quel Paese. E lo stesso vale per le tasse…

Una terra di mezzo, dove nessuno ha davvero, per il momento, acceso la luce. In compenso il Bitcoin vive una stagione di stop e bavagli, soprattutto da parte della Cina, dove il governo ha letteralmente demolito la criptomoneta più famosa al mondo, a colpi di divieti ai miners e messa fuori legge delle transazioni bancarie in Bitcoin. Naturalmente ci sono le dovute eccezioni, si veda El Salvador, Paese sudamericano che ha fatto del Bitcoin una moneta avente corso legale al pari di quella sovrana.

MAZZATA INGLESE

Dalla Gran Bretagna arriva però un caso che mette in luce alcuni aspetti paradossali relativi alle piattaforme sui cui transitano le criptovalute. La Finance Conduct Activity (Fca), autorità di regolamentazione finanziaria inglese, ha infatti bloccato tutte le attività regolate dalla piattaforma sino-canadese Binance con sede alle Cayman (il fondatore e ceo è Changpeng Zhao) nel Regno Unito, oltre ad imporre ulteriori requisiti per controllarne le operazioni. Uno su tutti, la piattaforma di scambio per criptomonete dovrà conservare i registri delle transazioni concluse da utenti inglesi e interrompere ogni promozione e attività pubblicitaria.

Anche se le motivazioni della stretta non sono state rese note, il nodo della questione sarebbero i timori riguardo potenziali transazioni illecite, quali truffe e riciclaggio di denaro, che beneficerebbero dell’anonimato garantito dalla blockchain.  I cittadini inglesi, comunque, potranno ancora finalizzare le loro cripto-transazioni accedendo ai servizi tramite altre giurisdizioni, visto che Fca ha imposto a Binance di esporre sul proprio sito a partire da fine giugno la scritta Binance market limited ovvero che la piattaforma non ha il permesso di svolgere alcuna attività regolamentata nel Regno Unito. Ed ecco il nodo.

PAESE CHE VAI, BITCOIN CHE TROVI

Il caso inglese è emblematico. Un Paese blocca transazioni e  scambi in criptomoneta, eppure i medesimi possono proseguire presso altri contesti normativi, grazie alla natura a-territoriale delle piattaforme per criptovalute. Lo dimostra il fatto stesso di Binance: l’attività, messa al bando nel Regno Unito, può sopravvivere altrove e non solo alle stesse Cayman, paradiso fiscale sede di numerose società soprattutto tecnologiche. Di qui una prima considerazione: fermare una piattaforma di Bitcoin nel Regno Unito può essere perfettamente inutile se poi ci sono numerose altre giurisdizioni pronte ad accogliere simili strumenti e le infrastrutture ad essi connesse, e se i cittadini inglesi possono comunque accedervi.

La soluzione è, come sempre, in un quadro regolatorio certo e, soprattutto uniforme. Ad oggi mancano delle regole comuni, come recentemente ricordato dal presidente della Consob, Paolo Savona, nella sua ultima relazione, che possano disinnescare il fenomeno delle piattaforme che proseguono indisturbate le loro attività nonostante i vari stop in giro per il mondo.

Discorso che vale anche per le tasse. In Europa, per esempio, non esiste oggi una norma fiscale uniforme sulle criptovalute. Alcuni Paesi non prevedono il pagamento di alcuna tassa. Tra questi ci sono Svizzera, Montecarlo ma anche Portogallo. Allargando gli orizzonti, si scopre che lo stesso succede in Bielorussia, Cina, Bahamas, Seychelles, Singapore. Nella stessa Italia, la normativa fiscale sulle criptovalute non si basa su una fonte univoca, come potrebbe essere una legge approvata dal Parlamento, ma su varie opinioni dell’Agenzia delle entrate e su sentenze di tribunali. Questo ha creato una varietà di interpretazioni, soprattutto online, che per i piccoli investitori possono diventare un problema.

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