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I candidati a sindaco di Roma. Una radiografia pre-campagna

Luigi Di Gregorio passa in rassegna i candidati a sindaco della Capitale. I programmi elettorali? Non contano nulla, se non quando incontri qualche stakeholder territoriale. Contano invece l’identificazione partitica, l’immagine e il profilo del candidato, il suo messaggio e il suo posizionamento, su questioni spesso più nazionali che locali

Manca ancora la data certa, ma tra metà settembre e metà ottobre (pare possa spuntarla il 10-11 ottobre), in diversi comuni si tornerà alle urne per le elezioni amministrative. I più importanti sono Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Ogni città fa storia e sé, come dimostrato anche dalle alleanze “ballerine”, specie nel rapporto ancora poco chiaro tra Pd e M5S: a Napoli insieme, a Roma no, a Torino non si sa…

Proprio perché ogni città fa storia a sé, mi concentrerò solo sulla Capitale, provando a fare una radiografia attuale dei maggiori candidati a Sindaco.

Virginia Raggi

La sua è una scelta coraggiosa. Nella nostra epoca, gli incumbent (ossia, gli uscenti) raramente hanno fortuna. Probabilmente farà eccezione Sala a Milano, ma il capoluogo lombardo è ormai un caso molto sui generis nel panorama italiano. È la nostra città più globale e ciò ha ricadute anche elettorali. Al di là dei meriti di Sala e della sua amministrazione, a Milano c’è un vento liberal molto forte, di un’intensità unica in tutto il panorama nazionale. Ma Roma non è Milano. E dunque la scelta della sindaca è una scelta coraggiosa. A maggior ragione in una fase di trasformazione del M5S di cui non si vede ancora il punto di caduta. Può diventare qualcos’altro, a guida Conte, così come può diventare un residuo di se stesso, qualora Conte fondasse un suo partito, prosciugando in parte l’attuale elettorato a 5 Stelle (già in calo da tempo). Chiaramente, qualora riuscisse ad arrivare al ballottaggio, Raggi avrebbe comunque le sue chance. Il doppio turno favorisce sempre candidati “terzi”, non collocati a destra o a sinistra. È la ragione per cui i 5 Stelle hanno vinto in molti comuni, ma nessuna regione (dove invece vince chi arriva primo, col maggioritario a turno unico). Tuttavia, il “terzismo” del MoVimento è sempre meno evidente. Per cui l’effetto bandwagon a suo favore da destra probabilmente oggi sarebbe meno forte e si verificherebbe solo in caso di ballottaggio con Gualtieri. Inoltre, la natura, il messaggio e il posizionamento del M5S così come della sindaca sono completamente cambiati. Ciò che era un movimento (e una candidata) di rottura, oggi sono establishment. Infine, in quanto uscente, sarà il punchball di tutti gli altri. La sfida è: abbiamo fatto bene (come establishment) e gli altri sono comunque diversi e peggio di me (resto io quella di rottura, non li fate tornare).

Roberto Gualtieri

È una candidatura che ha punti di forza e punti di debolezza. Il punto di forza è rappresentato dal profilo del candidato, non particolarmente divisivo e dunque non “invotabile” da elettori altrui in caso di ballottaggio. Il punto di debolezza è dato dalla notorietà/visibilità. Un tempo fare il ministro garantiva una certa notorietà. Oggi molto meno. La politica personalizzata e leaderizzata concentra la visibilità (e l’attenzione degli elettori) sui capi di governo o sui leader di partito. Da questo punto di vista, Zingaretti sarebbe stato nettamente più forte. Ma anche più divisivo, per la medesima ragione. Nella logica polarizzante contemporanea, spesso la visibilità divide. L’altro problema, non solo romano e neanche solo italiano, è la rottura ormai storica tra sinistra e popolo, per dirla con Ricolfi. Essere il partito del deep state può funzionare a livello nazionale (il Pd è sempre al governo da una vita), ma non a livello locale (dove per governare devi vincere le elezioni). La sfida è: uscire dalla ZTL.

Carlo Calenda

È il candidato “senza partiti”, o meglio senza grandi partiti alle spalle. Probabilmente anche il più gradito agli elettori indecisi o non schierati. Oggi vanta buoni numeri nei sondaggi, ma verosimilmente sono numeri che fotografano una fase pre-campagna elettorale. Calenda è in campo da mesi e, giustamente, ha occupato tutto lo spazio mediatico possibile. Ha cercato di lucrare sul fattore tempo, ossia sulle indecisioni altrui sui nomi da candidare, generando così una rendita da “candidato unico” nel percepito. Ad oggi, gode ancora di quel vantaggio. Presto però questo vantaggio potrebbe ridursi perché anche Gualtieri e Michetti dovranno necessariamente muoversi per recuperare visibilità. E, a differenza di Calenda, loro dispongono di tanti elettori identificati (non incerti). Tradotto: hanno i partiti. E Roma non è un piccolo comune, dove si vince con le liste civiche. Roma, tra tutti i comuni, è quello che è più influenzato dall’opinione pubblica nazionale. Resta un’elezione locale, ma conta tanto il peso dei partiti, dei leader e delle questioni nazionali. Se andasse al ballottaggio sarebbe una sorpresa enorme. E a quel punto verosimilmente vincerebbe con chiunque, grazie alla sua estraneità rispetto alle pseudo-coalizioni in campo. Ma è un’impresa titanica, sarebbe un risultato rivoluzionario. La sfida è: convincere tanti elettori che Sindaco, squadra e programma contano più delle tribù di appartenenza.

Enrico Michetti

È il classico candidato della “società civile”, caratteristica utile in caso di ballottaggio. Se l’alternativa era davvero Maurizio Gasparri, è chiaro che Michetti costituisce un candidato più competitivo al secondo turno. Gasparri è oggettivamente più divisivo, anche se molto più noto. Il problema di Michetti al momento è proprio la sua notorietà. È vero che è conosciutissimo agli ascoltatori di Radio Radio, ma i numeri di una talk radio, per quanto notevoli, sono bassissimi rispetto alla base elettorale di Roma. Può sicuramente contare anche su quella quota di elettori iper-identificata che voterebbe in ogni caso il candidato di destra. Ma anche così, non basta per avere garanzie di arrivare al secondo turno. Servirà una campagna di visibilità, con tutti i suoi rischi. Aumentare la notorietà è fondamentale per provare a vincere, ma non è detto che comporti solo effetti positivi, ovviamente. Alcuni “scivoloni” recenti fanno da spia sotto questo profilo. La sfida è: visibilità, ma senza boomerang. Evitare danni d’immagine e messaggi iper-divisivi.

Su tutti chiaramente incombe il fattore Covid. Non sarà una campagna elettorale come le altre, specie qualora la variante Delta ci costringesse a nuove chiusure. In quel caso, la campagna diventerà tutta social e televisione e zero “territorio”, in un clima comunque poco interessato, anche in virtù di questa sorta di sospensione della politica (e della campagna permanente) che è in atto da un anno e mezzo e a maggior ragione da quando è nato il governo Draghi. Questo aspetto farebbe propendere per una partecipazione elettorale non particolarmente alta, il che implica una particolare attenzione alla mobilitazione degli elettori “certi”. Con tutti i rischi annessi e connessi in caso di ballottaggio.

Non ho parlato di programmi elettorali, io che ne ho scritti 3 per l’elezione a sindaco di Roma. Dimenticanza? No, consapevolezza. Non contano nulla, se non quando incontri qualche stakeholder territoriale. Contano invece l’identificazione partitica, l’immagine e il profilo del candidato, il suo messaggio e il suo posizionamento, su questioni spesso più nazionali che locali. Il programma ci deve essere, solo per non farti dire che non ce l’hai (cioè per evitare un danno d’immagine…). È come il manuale di istruzioni di un videogame. Un tempo per giocare, dovevi leggerlo. Ora accendo e gioco, senza leggere niente. Molto meglio.

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