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Si salvi chi può. E chi non può… la svolta cinese sul “too big to fail”

La vigilanza bancaria e assicurativa invita le grandi aziende a rischio insolvenza ad attrezzarsi con piani di risanamento autonomi e sostenuti dai soli azionisti, senza l’aiuto del governo. Perché Pechino non è nelle condizioni di affrontare un’ondata di salvataggi in caso di crisi del debito sovrano

Era il 2008 quando la drammatica bancarotta di Lehman Brothers, fece entrare nei dizionari di finanza l’espressione too big to fail, troppo grandi per fallire. Si pensava, allora, soprattutto negli Stati Uniti che le aziende di una certa dimensione non dovessero portare i libri in tribunale, anche a costo di un intervento pubblico, coi soldi dei contribuenti. Ora, quella legge non scritta sembra essere venuta meno, almeno in Cina.

TOO BIG TO FAIL, ANZI NO

Se ne erano accorti persino gli economisti di Goldman Sachs, come raccontato da Formiche.net, annunciando il progressivo disimpegno del governo centrale dai salvataggi delle grandi aziende e banche cinesi. A cominciare da Huarong, gigante del debito sovrano e privato, con un piede nell’insolvenza dopo i ripetuti stop al pagamento dei bond agli investitori. Ora però, arriva un altro indizio su una svolta che stride non poco in un Paese dove l’iniziativa privata è ancora un privilegio per pochi (il caso Alibaba insegna) ma inevitabile in un’economia alle prese con un debito più volte riacciuffato per i capelli e una bolla immobiliare in costante rischio esplosione.

La commissione di vigilanza bancaria e assicurativa, ha scritto Reuters, ha apertamente invitato i colossi del settore a predisporre piani di risanamento propri, che non tengano cioè conto di un possibile intervento dello Stato, qualora il paracadute non dovesse funzionare. A Pechino, non è un mistero, si respira una certa preoccupazione per le sorti di alcune grandi aziende cinesi, finite in crisi di liquidità a causa dell’enorme debito accumulato e mai ripianato. Huarong, Ping An Anbang, sono alcuni dei casi più famosi e drammatici allo stesso tempo.

SALVATAGGI FAI DA TE

L’obiettivo di tali piani, hanno spiegato fonti ben qualificate a Reuters ( in Cina tali operazioni vengono associate ai testamenti biologici, sorta di operazioni salva-vita) è assicurarsi che le istituzioni finanziarie non finiscano per aver bisogno di costosi salvataggi per mano pubblica, come avvenuto finora. E questo perché le finanze del Dragone, provate dalla crisi del debito e da problemi demografici sempre più evidenti, non potrebbero sopportare salvataggi a catena, qualora la crisi del debito sfuggisse definitivamente di mano. La filosofia è chiara come ha spiegato la stessa fonte: devono essere gli azionisti e non più l’onnipresente Stato a garantire la sopravvivenza dell’impresa. Tradotto da oggi non sarà più concesso fare affidamento esclusivamente sull’intervento pubblico.

TRA DEBITO E FIGLI

La mossa del Dragone mette in luce ancora una volta il vero problema della Cina, il debito. Uno spauracchio, di gran lunga peggiore rispetto al probabile sboom demografico, che ha spinto Pechino a eliminare i vincoli sul numero di figli per ogni famiglia. La leadership cinese deve risolvere la sua eccessiva dipendenza dal debito e questo, come hanno spiegato alcuni esperti interpellati da Fortune, può essere fatto in due modi.

Il primo, a lungo promesso dai funzionari del governo, è traghettare l’economia lontano dalle infrastrutture e dai settori immobiliari, non più produttivi. Sebbene storicamente difficile da eseguire, tale operazione re-indirizzerebbe i finanziamenti verso l’alta tecnologia e altri settori produttivi. Il secondo modo è sostituire il calo degli investimenti con l’aumento dei consumi per guidare la crescita del Pil. Ciò significa effettivamente ridurre drasticamente la quota governativa del Pil e reindirizzarla al settore delle famiglie in modo da consentire alla Cina di mantenere gli obiettivi di crescita senza la dipendenza dal debito.

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